Genova, sotto il ponte che non c’è più e una volta c’era

Ho visto mani su volti striati di rughe di età e di fatica, di salsedine e di sole, coprirsi gli occhi quasi a fingere che la luce fosse troppo intensa da sopportare. Ho sentito il silenzio che pareva parlare di rabbia, impotenza, nostalgia e infine del dolore dell’uomo. Per i morti, per i salvati, per i sopravvissuti, per quel vuoto lasciato da un ponte e case abbattute, per i governanti che parlavano, per le parole di una donna composta, moglie di un uomo amato che prima c’era e un attimo dopo non c’è stato più.
Quel giorno pioveva e tutto era avvolto in una nube bianca di scrosci dal cielo. Quel giorno, per fortuna – si dice ancora – era il 14 agosto e diluviava alle 11 e 36 minuti. Chi era corso in casa a ripararsi, chi aveva già raggiunto l’aeroporto, chi il traghetto da prendere, chi aveva rinunciato a raggiungere il centro di Genova. “Mia figlia è passata il giorno prima con i due bambini”, mi racconta una signora del Sud, come tanti che hanno riempito di braccia da lavoro sicuro negli anni ’60, la Genova dell’Ilva, dell’Ansaldo e del grande porto del nord Italia. “Mia figlia sarebbe potuta morire con i miei nipotini”. Lacrime scendono leggere davanti a quel vuoto che colpisce come una sciabolata la memoria del tempo trascorso ad attraversare il Morandi, il Brooklyn, il ponte sul Polcevera, torrente asciutto e verde d’erba quasi tutto l’anno finché non si gonfia e scende al mare tumultuoso. Non c’è più la forza e la voglia di protestare adesso che sembrano finalmente interrati i morti, lasciati andare insieme ai palloncini bianchi allo scoccare dell’ora delle campane pietose della Certosa, ore 11,36 in punto.
Quattro ragazzi in vacanza a Chiavari sono venuti apposta. Sono operai di Brescia: “Eravamo vicini, volevamo rendere omaggio anche noi a questa povera gente”. Bella gioventù di lavoratori semplici, come lo sono la maggior parte delle persone accorse da ogni lato di Genova e città della costa vicine. La Croce Rossa passa a donare bottigliette d’acqua sperando che tutti le prendano, e restano delusi se gli dicono no, grazie l’abbiamo già. Tanti di loro c’erano un anno fa, il giorno stesso o quello successivo o quelli dopo ancora, tanti sono stati a dover occuparsi di una disgrazia simile. La frenesia delle forze dell’ordine si attenua non appena tutte le autorità sono al loro posto. Le auto sono arrivate, la sbarra chiusa e riaperta venti volte quasi a non sapere se sia giusto fare passare prima loro dei genovesi, i familiari, gli amici, i colleghi. Il sole scotta eppure non si sente, tanto è palpabile la caducità dell’uomo inginocchiato davanti agli eventi che non controlla e anche se avesse potuto farlo, per un manufatto costruito dall’uomo, ha scelto il progresso, la comodità, l’economia, la vita che va avanti, sperano che non accada mai niente, che niente si sbricioli, che niente si distrugga, che niente si corroda lentamente. Così si era deciso allora, nel boom del ’60, e così si è deciso ancora e subito nel 2018, con la fretta di fare vedere e fare vedere che tutto sarà come prima. Le colpe addossate subito con rabbia, cadono nella commozione per chi ha pagato e senti dire “siamo tutti colpevoli” quasi a voler soccorrersi in quel senso di colpa che sempre attanaglia i sopravvissuti nella Genova di sopra e quella di sotto, ricca e povera, nera e bianca, chiusa e accogliente che i soldi o li fa e poco spende, o li deve guadagnare anche il giorno prima di Ferragosto guidando un camion o raccogliendo la spazzatura. Questi morti, di lavoratori genovesi il 14 agosto, pesano come macigni: “Potevamo esserci anche noi su quel ponte o sotto il pilone”. Così la tragedia possibile che speri sia impossibile, diventa la morte di tutti, e i sopravvissuti lacrimano sulla loro quasi ingiusta fortuna.