Le gemelline, otto anni dopo

Era il 30 gennaio 2011 quando Matthias Schepp, tedesco di origini canadesi, ex marito di Irina Lucidi, italiana, ha preso le sue bambine di sei anni, le gemelline Livia e Alessia, e le ha fatte sparire.
Non sono mai state ritrovate. Loro no, lui sì: morto sui binari, colito in pieno dalla locomotiva di un treno veloce che transitava a tarda sera dalla piccola stazione di Cerignola, in Puglia.
Otto anni dopo, la mamma delle bambine è riuscita a rifarsi una vita in Spagna con un brav’uomo e da lì dirige la Fondazione per i bambini scomparsi da lei stessa creata nel paese dove è vissuta, in Svizzera, a Saint Sulpice, sul lago di Losanna teatro di questa immensa tragedia.
C’erano regole diverse in Svizzera, prima che le gemelline venissero rapite dal padre; obbligo di attendere 48 ore per fermare il rapimento. Era stato un bravo poliziotto a prendersi a cuore la vicenda (e a comprenderne la gravità) dando disposizioni di cercare l’auto di Schepp per un controllo sia in Svizzera sia in Francia dove si sapeva già essere diretto. L’uomo non aveva interrotto il rapporto con la ex moglie durante la fuga che si è conclusa con il suo suidicido. Le aveva inviato messaggi di depistaggio per prendere tempo e non farla preoccupare: “Le bambine le tengo fino a lunedì, hanno bisogno di stare con me, le riprenderai tu all’uscita di scuola”. le aveva mandato messaggi ambigui, quando già si trovava in Francia: “Non hai voluto mai parlarmi, mi hai mandato una mail!”. A giorni ci sarebbe stata l’udienza per il divorzio e l’affidamento delle bambine. La coppia aveva trovato fino a quel momento accordi verbali e Irina si era mostrata attenta alle bambine, legatissime al padre, scegliendo di vivere vicino alla casa familiare dove lui era rimasto e di fargliele vedere ogni fine settimana. Aveva anche accettato che le portasse 15 giorni ai Caraibi, in barca a vela, volendosi fidare di un uomo del quale aveva paura da tempo e per questo aveva lasciato. Schepp era narcisista, ossessivo compulsivo, depresso e dipendente. Disturbi di personalità patologici che avrebbero richiesto un ben diverso comportamento in quanto conosciuti come pericolosi quando la persona che ne soffre si percepisce vittima di un attacco al suo fragilissimo “io”. Irina non avrebbe potuto fare nienre di diverso da quello che ha fatto perché poco sapeva delle potenzialità sotto stress di queste personalità. Matthias Schepp, racconta oggi l’avvocato di Iria, che è anche suo cugino, già da ragazzo aveva fatto ricorso a un ricovero in psichiatria. Quando Irina l’ha conosciuto, in Svizzera, entrambi dipendenti della stessa azienda benchè con due professionalità diverse (lui ingegnere, lei avvocato)era un bel ragazzo tranquillo e affettuoso e se ne è innamorata. Rimasta incinta, l’ha sposato non immaginando nemmeno lontanamente che quello stesso uomo sarebbe via via cambiato così tanto. O meglio: sarebbe emersa quella parte oscura (mostruosa) che c’era anche prima che lo conoscesse. Il senso del diritto del narcisista (e qui si parla del più pericoloso da smascherare perché non urla e non maltratta fisicamente) si palesa maggiormente quando la famiglia è consolidata. Matthias era ossessivo e questo tratto era l’unico evidente e devastante per Irina: regole ferree e indiscutibili che al contrario di quello che si pensa non sono autoritarie ma narcisistiche, cioè espressione di un senso di inferiorità (di cui Irina sapeva, nei suoi confronti)che mette in moto meccanismi di difesa disfunzionali e lo fa in vari modi finchè è funzionale allo status quo. Se questo si rompe (Irina l’ha lasciato) scatta la difesa di sopravvivenza dell’io che niente ha a che vedere con la problematica, per quanto dolorosa e difficile delle separazioni con figli. In questo quadro si può comprendere la decisione di Schepp quell’ultimo week-end prima dell’incontro col giudice: durante la settimana aveva pensato di uccidersi e per farlo aveva fatto diverse ricerche in internet di veleni da assumere. Morte dolorosa e “femminile”, così come ci racconta il bellissimo romanzo Madame Bovary. Questo può far fare una seria depressione vissuta interiormente e senza rabbia. Ma dopo pochi giorni cambia idea, segno che l’avvicinarsi della resa dei conti (la chusura definitiva voluta dalla moglie)scatena la rabbia narcisistica: e io chi sono? Il potere ora ce l’avrò io e non più tu. Questo deve aver pensato (rimuginato più che pensato) nel preparare in pochissime ore quanto poi è successo. Ci sono dei buchi che nessuno è riuscito a colmare nelle ore di quell’ultimo sabato a Saint Sulpice, nella casa chiusa da un alto cancello di ferro grigio senza nessun foro per poter vedere all’interno del cortile, a pochi passi dal lago. Le bambine sono state consegnate ai vicini per un paio d’ore. Quando è andato a riprenderle, intorno alle 13 del 30 dicembre, sono state come inghiottite nel nulla. Il bambino dei vicini è andato alle 16 a suonare a quel cancello per giocare ancora con loro e nessuno ha risposto. Le forze dell’ordine, entrate in casa il giorno dopo, troveranno all’entrata i seggiolini per l’auto e nel forno confezioni di lasagne da scaldare. Cosa ci dice questa scena? Ancora poco perchè incompleta. A una ricerca attenta sono risultate mancanti due grosse borse da barca a vela. Nient’altro: persino il pelushe di una delle bimbe era in casa. Cosa ci dice questa scena? Che Matthias le ha caricate in auto col seggiolino nel cortile di casa (invisibile dall’esterno), che si è portato due borse, e che non hanno mangiato a casa. Può aver semplicemene detto: bambine andiamo al ristorante. Un impulso non l’idea (ben preparata) ma l’orario e il momento scelto, probabilmente perchè in inverno a quell’ora sono tutti a tavola e chiusi in casa. In effetti Schepp non ha avuto alcun testimone: nessuno l’ha visto uscire con l’auto, nessuno rientrare, nessuno vagare nel suo o paesi vicini. Nessuno ha visto le bambine. Cosa ci dice questa scena? Che le bambine sono rimaste sull’auto, sui seggiolini, obbedienti, fino al luogo da lui prescelto per loro che tano distante non può essere stato (o aumentava il rischio di essere notato). In casa sono state trovate scarpe sporche di fango. I seggiolini sono stati riportati a casa: primo segnale (in Svizzera rischi il fermo immediato se non hai i seggiolini e l’ultimo desiderio del padre era quello di esssere scoperto) che non sono mai state su quell’auto verso la Francia, e poi la Corsica e poi l’Italia dove tutti (tre Stati, ma anche moltissime persone nel mondo che hanno sofferto con la madre) le hanno angosciosamente cercate per una settimana.
C’è un altro buco, rilevato invece dal cellulare, che alimenta ancora la speranza della famiglia: dove le ha portate? Dalle 15 alle 17 il segnale gps si avvicina all’aerporto svizzero per poi riprendere la strada verso Marsiglia dove effettivamente si fermerà e sarà inquadrato dalle telecamere di un bancomat. Contro ogni logica che sempre accompagna questi casi di bambini vittime di adulti, si pensa che Scheep le abbia salvate mandandole via dalla Svizzera. C’è un dettaglio a suffragare questa ipotesi: la tata delle bambine ha dichiarato alla polizia che Matthias le aveva proposto mesi prima di sparire insieme con le bambine in previsione appunto di doverle affidare alla madre in via definitiva e con provvedimento (e regole) di un giudice. Lei non è sparita con le bambine, e questo è un dato inoppugnabile. Nè le bambine sono mai arrivate a casa di parenti di lui, nè tantomeno è stata trovata una qualsiasi traccia di persone che lui avrebbe conosciuto e che avrebbe potuto pagare per un atto illegale. Non mancano soldi dal conto corrente che era in comune e non risultano spesi soldi. Anzi: gli unici soldi che ha prelevato sono serviti solo a fermare la ex moglie dal partire a cercarlo, tanto che all’ultima stazione (metaforica e concreta) della sua vita glieli spedisce in buste separate. Si può interpetare come l’ultimo sfregio dopo l’annuncio “Le bambine non hanno sofferto, non le rivedrai mai più”? Forse no. Forse è solo l’atto conclusivo di un piano razionale di cui fanno parte cose concrete come i soldi: miei non sono, non mi servono, li restituisco. Ma non è facile entrare nella mente malata di un narcisista all’ultimo stadio della malignità e questa restituzione può anche essere uno sfregio finale. C’è una cosa che salta all’occhio comunque: il dialogo mai interrotto, nascosto ma sincero, tipico di queste personalità. Ambiguo al punto che tutto può essere vero e tutto falso perchè loro vogliono che appaia in questo modo e tale viene recepito. Perché loro sono ambigui: falsi e sinceri nello stesso momento. Non sono sentimenti sani a fare prendere decisioni: sono impulsi distruttivi a volte di se stessi, a volte degli altri, a volte di entrambi. Sempre però distruttivi e mossi da cosiddetti proto-sentimenti. Si può uccidere i propri figli che per sei anni hai mostrato di amare e accudire? Sì, si può. L’hai mostrato, non è detto che li amavi davvero. Si può vendicarsi della ex moglie facendola soffrire tutta la vita? Si, si può se non ti assumi la resposnabilità di guardarla in faccia. Schepp è il classico vigliacco che fugge, che manda messaggi, che tace, che racconta per scritto, che depista, che non svela piani ancora confusi benchè piani con un fine preciso che niente avrebbe fatto modificare, neppure Irina. Ha preso tempo per morire: questa è l’unica certezza. Non voleva essere fermato per non finire in carcere o svelare dove fossero le bambine: questo è stato l’unico piano “sensato” (per lui, naturalmente) che sapeva potergli dare all’infinito un potere enorme, quello che mai era riuscito ad avere in vita, nè da bambino nè da adulto. Come sarebbe andata se Irina non l’avesse lasciato? Lui stesso avrebbe provocato l’epilogo perché lei prendesse la decisione e potesse uscirne sempre vittima. Sembra strano affermarlo: Schepp si è sentito vittima di Irina e mai carnefice, avendo scelto una delle morti più crudeli per se stesso: tirarsi sotto un treno e non buttarsi in mare (come forse avrebbe voluto fare dal traghetto in Corsica ma non è riuscito)o avelenarsi o impiccarsi. Scegliere per sè una morte violenta signfica punirsi mostrando al mondo che tu soffrivi. Quello che è successo dopo, lui non l’ha mai saputo. Ma otto anni fa nessuno è riuscito a inveire contro un matto, presi come si era a immaginare e sperare che quel matto avesse un cuore e salvato le bambine (e perciò si è provata pietà per uno che non la meritava ma che è riuscito a fare cascare tutti nel perverso gioco dell’ambiguità).
La perversione dei narcisisti maligni è aberrante e Irina Lucidi è una donna, che a differenza di molte altre che hanno patito anche meno di lei, è riuscita a fidarsi ancora dell’amore.
Dove sono le gemelline?
Dove non le hanno trovate perché non hanno cercato bene.

(Bruna Bianchi giornalista, si può condividire dal blog, non copiare).

Il mostro di Foligno chiede scusa

Luigi Chiatti si è definito da solo il “mostro di Foligno”. L’ha fatto firmando le sue missive di sfida alle forze delle ordine – come un serial killer da film – dopo avere ucciso il piccolo Simone Allegretti di 4 anni e avvertire di un altro omicidio che effettivamente verrà compiuto 10 mesi dopo: Lorenzo Paolucci di anni 13.

Luigi Chiatti  in realtà si chiamava Antonio Rossi, dal cognome della madre rimasta incinta a Narni, nel Ternano, in Umbria. Nome e cognome nuovi sono stati acquisiti all’età di sei anni, dopo l’adozione da parte dei coniugi Chiatti di Casale, piccolo comune nei pressi di Foligno, stavolta in provincia di Perugia.  Il bambino Antonio una identità l’aveva, e aveva anche una madre che pur tra mille difficoltà e sensi di colpa per averlo messo in un Istituto religioso, lo andava a trovare. Finchè non c’è più andata e non sarebbe strano sapere che sia stata consigliata dalla stessa struttura a dare il bambino in adozione definitiva. Di quell’Istituto religioso si è però saputo ufficialmente al processo che il piccolo Antonio veniva abusato da un sacerdote. Cosa succede ai bambini abusati e in questo caso anche senza genitori “puliti” e casa “pulita” dove potersi rifugiare? Dopo aver subito il trauma o ripetuti traumi, quasi sempre sviluppano anche un importante disturbo della personalità. Ma traumi e difese psichiche per evitarne il ricordo emotivo dirompente non si evidenziano sempre subito e neppure in un modo ben visibile, e se anche fosse visibile è difficile interpretare correttamente. Uno dei comportamenti messi in atto dai bambini abusati è la dissociazione psichica scambiata facilmente per “stare sulle nuvole” o “estraniarsi”. Altri sono i capricci o il mettersi in mostra con eccessi o addirittura all’incontrario tentare di essere invisibili e restare in disparte. I disturbi in generale diventano più evidenti nell’adolescenza ma anche allora si tende a giustificare e interpretare (piscologi compresi) senza approfondire con test e osservazioni mirate. Prima che scatti il vero allarme occorrono azioni eclatanti e delinquenziali non coperte dalle famiglie che non sempre però sono azioni eclatanti e non sempre le famiglie sono disposte a compiere percorsi diagnostici seri e molto lunghi.

Chiatti è un bambino del 1968 in una regione piena di luci ed ombre, di contadini poveri, di abitanti ricchi, di immigrati italiani, di ragazzi drogati e di Medioevo ancora incombente.  Di pellegrini e religione e di apparenza da salvaguardare. L’Umbria è una terra fortemente contradditoria, ambigua, chiusa verso il suo sud e più aperta verso il suo nord, con accenti e addirittura parole dialettali differenti a seconda della vicinanza alle altre regioni con cui confina. E’ terra di bullismo e suicidi e negli anni 90 (epoca degli omicidi) è stata anche terra di terremoto, morti, distruzione e paura.

I genitori adottivi (il padre è medico) comunque mandano Luigi dallo psicologo perchè il ragazzino è strano: colleziona vestiti di bambini e pare omosessuale o per lo meno in crisi di identità. Data la sua storia di orfanotrofio, abbastanza normale che lo sia e vada aiutato. Ma nel suo caso lo psicologo coglie ben poco di pericoloso e rilevante e gli diagnostica un io fragile, cioè fermo allo stadio infantile e non strutturato che dice molto in alcune patologie psichiatriche ma molto meno a chi cerca solo di intervenire terapeuticamente (e verbalmente) su un ragazzo ancora in formazione e ben poco desideroso di farsi aiutare.

E’ il servizio militare, allora ancora obbligatorio, a imprimere una svolta netta non solo alla sua identità sessuale (che diventa con evidenza omosessuale) ma con tutta probabilità anche alla sua percezione della realtà. Non è il primo e unico caso in cui il servizio militare, fortemente strutturato, (ma anche la lontannza dal contenimento familiare) nelle personalità fragili e già disturbate aumenta gli stress e le difese disfunzionali fino a fare esplodere le patologie e renderle conclamate.

E’ il 4 agosto del 1992 quando Chiatti, che rumina nella psiche, alterando la realtà, riesce ad agganciare con facilità il piccolo Simone che si era allontanato da casa solo. Cosa vuole da lui? Vederlo nudo e molestarlo sessualmente, ma di fronte al pianto del bambino lo uccide. Voleva solo molestarlo o anche ucciderlo? E chi era quel bambino nella mente perversa non dell’omosessuale, ma del pedofilo Chiatti? Ce lo fa sapere lui stesso, anche se in modo maldestro e allora non interpretato dalle forze dell’ordine che quando trovano, su sua indicazione, il corpo del bambino, non analizzano proprio quel comunicato tra delirio di richiesta di aiuto, ammissione di colpa e sfida all’autorità. Chiatti chiede aiuto perchè sa che uccidere l’ha fatto stare meglio e in contemporanea è narcisisticamente contento di non fermarsi e farlo sapere addrittura alla polizia. Oggi si definirebbe più facilmente uno psicopatico pericoloso e non un maniaco sessuale pedofilo. Lui stesso si definisce mostro perchè tale si sente e tale vuole mostrare di essere, fino in fondo. Sotto il mostro però, c’è sempre un bambino piccolo che ha pianto senza lacrime. Averne compassione è la cosa più sbagliata che si possa fare.

Dieci mesi dopo, Chiatti ucciderà un ragazzino di 13 anni che stavolta conosce e con cui passa del tempo insieme senza generare sospetti. Forse non intendeva ucciderlo? O forse anche stavolta è scattato lo stesso meccanismo della prima: chi era il primo, bambino piccolo e solo (abbandonato?) e poi il secondo, adolescente (rifiutato nella sua identità?), nella mente di Chiatti?  Luigi Chiatti è lineare nei suoi comportamenti, e per questo al processo viene ritenuto capace di intendere e volere e condannato a 30 anni di carcere. Due anni fa gli è stato negato, come altre volte, il permesso di uscita perchè  ritenuto dal magistrato ancora socialmente pericoloso. Ieri il ragazzo (ormai uomo) ha fatto pubblicare dai giornali tramite il suo legale una lettera di scuse alle famiglie con riflessione sul suo cambiamento. E’ una lettera nella quale non si chiede perdono (a differenza di molte altre spedite dai detenuti assassini) ma si porgono le scuse per un comportamento di molti anni fa e non più corrispondente a se stesso di oggi. E’ lecita la domanda? Può il carcere cambiare la percezione di se stessi gurdando il proprio passato con dolore e rammarico? Sì, se non ci sono sottostanti patologie che hanno costruito quel passato. Se in vece queste ci sono, il carcere non cura nessuna patologia mentale, nè fa compiere percorsi miracolosi quando si uccidono bambini con il preciso scopo di uccidere bambini e non per coinvolgimento durante l’attuazione di un crimine o vendette trasversali. Mente l’abuso sui minori è molto diffuso, lo è fortunatamente molto meno il delitto di minori. Ancora più raro è il pluriomicidio a distanza di tempo senza neppure (come nel caso del ragazzino 13enne) una vera motivazione sessuale: era stato uno scatto d’ira senza molestie. Se l’omicidio del piccolo Simone è stato interpretato come la consegenza del timore di essere riconosciuto dal bambino in lacrime, Chiatti non avrebbe mai ucciso la seconda volta, quando invece neppure si è protetto dalla polizia (come invece ha fatto la prima) e le tracce di sangue hanno portato diritto a casa sua. Voleva essere preso? Evidentemente no.  Non si è premurato di difendersi e perciò è stato arrestato.Tra i suoi disturbi giovanili esisteva già il discontrollo degli impulsi, un segnale importantissimo che purtroppo non viene ritenuto grave, ritenendo i bambini e i ragazzi incapaci di autocontrollo. Non è vero: il controllo si insegna e si apprende. Se non viene appreso, mette in luce un disturbo che va osservato con altri comportamenti spesso correlati. L’impulso all’azione riconosciuta immorale o sbagliata, indica già una capacità di discernimento che il bambino e poi il ragazzo e infine l’adulto non sanno (o non vogliono) controllare. Perché? Perché stanno meglio dopo aver agito!

Le scuse di Chiatti perciò sono parole vuote, convenzionali. Oppure piene di altri signifcati, il primo dei quali è: fidatevi di me e fatemi uscire di qui ora e non nel 2021.

In fondo però non manca molto al fine pena: cosa cambierebbe? Niente per uno che ha trascorso 24 anni di vita in cella e ha 50 anni. Molto, se fuori ha qualcosa o qualcuno per cui vale la pena di uscire.

Secondo la ma opinione, Luigi Chiatti doveva essere considerato un malato di mente (perchè tale è)  benchè con l’incapacità di intendere e volere avrebbe scontato solo dieci o quindici anni al massimo in un OPG. Avrebbe avuto farmaci e cure psichiatriche (e soprattutto una corretta diagnosi). Con la loro chiusura sarebbe finito in una comunità per soggetti socialmente pericolosi (al pari di altri assassini narcisisti perversi mai recuperati) e da lì probabilmente non sarebbe mai uscito se non per lavorare in qualche cooperativa.

Ricordo il processo e la sua capacità di parlare dei fatti commessi, pari a quella di oggi di scriverne. E della sua condanna per essere stato capace di capire cosa stava facendo la prima e la seconda volta.

Conosco di persona un assassino, molto giovane, che parla di quello che ha fatto incolpandosi continuamente e spiegando dettagliatamente anche il perchè l’ha fatto con grande capacità di autoanalisi. Ha una riconosciuta patologia mentale e una infanzia che difficilmente non poteva svilupparla ma io, dalle sue parole, non percepisco nessuna emozione, nè buona nè cattiva. Proprio nessuna.

 

Roma, eternamente abbandonata

Sono stata a Roma lo scorso aprile. Per la prima volta per capirla nelle sue parti più oscure.
Ho viaggiato molto, più spesso in luoghi problematici che in quelli puliti. Ho aumentato, negli anni, le percezioni immediate, di pancia prima che di testa. A Roma sono andata a vedere il quartiere San Lorenzo che non conoscevo, pur avendo letto moltissimo per la fama che ha del grave bombardamento del 1943.  Ho parlato con tutte le persone che ho trovato per la strada, al mercato, nei bar.  Ho camminato diverse ore, tra le strade del quartiere, l’Università La Sapienza (dove è stata uccisa Marta Russo con un colpo di pistola sparato da due studenti alla finestra) e il cimitero monumentale del Verano dove sono sepolti tutti i grandi.

In una di queste strade di San Lorenzo, è stata violentata e uccisa Desirèe, una ragazza di 16 anni. Il suo corpo è stato trovato giovedì sera su denuncia di una sua amica. L’autopsia, fatta oggi, ha stabilito che è stata violentata da diverse persone (4 o 5) ed è morta per overdose di droga, cioè è stata drogata per poterla abusare in gruppo.

Desirèe era all’interno di un luogo occupato. Luogo non luogo, dove si spaccia, si bivacca, si fanno affari sporchi e si è sporchi per definizione perché lì, rasoterra e nascosti da un muro, si sceglie di stare. Una ragazza è come un punchball per sfogare tutta la rabbia del mondo, ma invece di picchiarla si può umiliarla e usarla a più non posso in una escalation di schifo (il nostro) compiuto da persone che invece provano sollievo e normalità nel fare del male. Chi delinque e compie crimini aberranti non vede neppure la differenza tra normalità e crimine finchè non scattano le manette e qualcuno glielo ricorda. Ma anche in questo caso, il crimine, nei bassifondi dell’emarginazione, non ha lo stesso significato che possiamo dare noi che proviamo rabbia, schifo e pietà.

Basta vedere San Lorenzo per capire che i ragazzi universitari che oggi riempiono le case di un paio di strade, hanno accettato di vivere in un luogo non luogo dove ci sono delinquenti che ti dicono apertamente di esserlo, con orgoglio, e scritte sui muri che piangono delinquenti uccisi da altri. Scritte fasciste e naziste si mescolano con quelle rosse e di sinistra e gli anziani ti mostrano e raccontano le case bombardate che hanno sistemato come fossero musei all’aperto senza esserlo.  Chi non fa affari con gli studenti, vive nella stessa povertà e stessa emarginazione (reale e culturale) di 70 anni fa: anche allora Roma viaggiava sul doppio binario politico di appoggio e opposizione al Duce, di poveri e furbi, di vittime e colpevoli. I ragazzi che studiano all’Università, al domandarglielo, neppure sanno cos’è successo qui nel 1943 e quelli che ci abitano nemmeno sanno che quel quartiere non è solo baretti per ragazzi ma che lì c’è la ferrovia e degrado. Proprio per quello scalo ferroviario è avvenuto il feroce bombardamento a tappeto dei tedeschi e proprio lì, a ridosso della ferrovia, sono andata e quasi subito tornata indietro. Avevo la netta sensazione di essere in Sudamerica e con la stessa sensazione di pericolo che dà un luogo dove tutti si possono nascondere e non sai dove, dove tutto è disastrato, rotto, abbandonato e non sai chi vive in quell’abbandono. Ora lo sappiamo. Ma i romani lo sapevano anche prima. Che fossero extracomunitari non significa molto. La delinquenza ha spesso una connotazione politica di estrema destra per il fatto di essere messa in atto da anti-sociali: lo sono spesso i galeotti e gli ex galeotti, i loro sostenitori e i nostalgici. Per quanto qui siano conosciute le associazioni di sinistra, è la destra romana, quella fascista e delinquenziale a dare l’impronta al quartiere. Cosa c’entra con Desirèe? C’entra con il non visto non di un governo, ma di tutti i governi che hanno messo le mani su Roma senza mai fare interventi seri, strutturali, fuori dal centro storico per turisti, rovinato dai turisti, assaltato dai tursiti dove non si sa più se è il turismo (e le centinaia di ministeri e derivazioni pubbliche) a mangiarsi Roma o Roma ad essere mangiata. Tutto, nei quartieri periferici di Roma si attorciglia su se stesso e camminando camminando percepisci e vedi con gli occhi un degrado insopportabile. Di anni, di secoli. Strutturale. Parte di questa enorme città che ha ancora ovini qua e là, asfalto rotto così come sanpietrini rotti, spazzatura che non è sporcizia, ma una spazzatura come quella dei bassifondi Napoli o addrittura di un campo-rom.   Se parli con gli spazzini te lo spiegano e quello che arriva non è la verità ma una sorta di indolenza romana, statale, pubblica (che mi frega, io prendo lo stipendio), dove solo la classe alta e borghese (che con fortuna vive in zone o case eleganti o accettabili) e culturalmente elevata ha trovato il modo per amare Roma e chiudere gli occhi su tutto quello che è insopportabile anche solo alla vista. Sono stata a Roma tantissime volte in un quartiere periferico accettabile. Non bello, non perfetto, non antico, ma accettabile. Ricordo che odiavo il traffico, vedevo solo quello. Ma lo odiavo perchè non capivo come si potesse accettare o addirittura provocare. Non sapevo ancora osservare oltre, nè parlavo con le persone come faccio invece da molti anni. Roma è bellissima se non attraversi, da estraneo, l’anima dei suoi abitanti. Se accetti, se ammiri, se fai il turista di passaggio che niente di più si aspetta. I romani sanno quanto sia difficile viverci, ma non sanno distinguere il significato del pericolo in Italia, abituati solo a quello che vedono, evitano o ci vivono in mezzo.

Desirèe era una ragazzina senza difese e non solo per l’età. Era senza basi forti, senza morale forte, senza “io” forte. Non sappiamo ancora perchè fosse lì, ma se era lì è perchè era un ambiente che non le faceva così paura o che credeva di conoscere e controllare. Sedici anni è un’età pericolosa in certi luoghi non luoghi d’Italia che non sembrano neppure tanto periferia (diamine, c’è una famosissima Università!) eppure lo sono irrimediabilmente. Lasciati a se stessi, incontrollati, con la parvenza (ancora peggio!) della vivibilità e cultura. Inutile che Salvini faccia i suoi show acchiappavoti o che la sindaca Raggi si mostri costernata. Inutili le proteste della gente che ben più di me (che ho visto solo ad aprile) sapevano bene che queste aree di disagio accumulano disagio e come il boschetto di Rogoredo a Milano e diventano luoghi pericolosissimi e non per lo spaccio in sè, come si pensa, ma per quello di chi occupa indisturbato le terre di nessuno per fare quello che vuole, dalo spaccio, al consumo alla violenza sulle ragazze.  Le terre di nessuno sono sempre di chi se le prende con la forza (e per forza si tratta di poveri, disagiati,  irregolari, deliquenti, gente ai margini) con la compiacenza di chi gli sta intorno e finge di non sapere e non vedere perchè “cosa posso fare io?”. Non è stato fatto niente da nessuno e qualcuno invece fa e fa molto, in questa libertà di vendere tramezzini agli studenti, affittare case agli studenti e lasciare merda due strade più in là. Persino il bellissimo cimitero del Verano è pietosamente senza cure come se a Roma interessasse solo lo specchietto per le allodole dei Fori, il Colosseo, Transtevere e poco altro con tutto lo spaventoso indotto del turismo orario da spennare a più non posso.  E i primi a spennare chiunque sono i romani, in quel malcostume eterno che viene incentivato anzichè frenato e regolato. La bellezza folgorante nasconde sempre il marcio. Eccolo emergere due volte in pochi giorni:  una ragazzina uccisa da un branco famelico e una scala mobile impazzita.  Il non controllo provoca il discontrollo. Peggio del bombardamento del ’43.

La normalità dell’omicidio di Manuela

La sorella di Manuela Bailo è stata la prima a pensare che l’ansia per la sua scomparsa le provocava anche un sordo dolore. Ci sono strane premonizioni nell’ansia. La prima, e più importante fra tutte, è la novità del sentimento. Diverso. Sconosciuto. Non collocabile tra i ricordi emotivi di altri timori che qualcosa di brutto e terribilmente doloroso stia per investirci.  Al  Caf, il centro fiscale della Uil di Brescia, Manuela aveva salutato tutti il 27 luglio. Era un venerdì. Ha spento il computer ed è andata a casa: l’indomani sarebbero iniziate le vacanze estive. Aveva in programma un viaggio in Grecia con l’amica Francesca ma non ha lasciato trapelare nulla di quello che pensava, cioè che quella vacanza era un ripiego come lo era stata quella dell’anno precedente senza lui, l’uomo per il quale aveva perso la testa. E persa davvero. Le storie impossibili sono storie impossibili e non si raccontano troppo in giro. Della sua relazione con un rappresentante sindacale dei Trasporti della stessa categoria, si era saputo per forza. Si erano conosciuti due anni prima proprio nell’ufficio dove lei era capo e lui si era fatto fare la dichiarazione dei redditi. Fabrizio Pasini era un uomo con un certo fascino, ma era sposato e con due figli. Manuela aveva appena chiuso la storia con Matteo, quasi senza spiegazioni forti quale può essere il non ti amo più, o vorrei un altro al mio fianco. Con Matteo ha continuato a vivere nella stessa casa. Lui dice che l’amava ancora, che non ha mai smesso di amarla. Difficile restare sotto lo stesso tetto se uno ti ama e l’altro no. Se uno soffre per non essere più amato e l’altro ha già una storia, per quanto poco importante, con un altro. A Matteo forse sembrava poco importante, ma Matteo osservava i comportamenti della sua ex per capire se l’aveva persa per sempre oppure no. Tra di loro nonostante tutto il non detto che non si poteva dire, c’era la lealtà della convivenza, tanto che alle 10 di sera del 28 luglio, sabato, Manuela le manda un sms avvertendolo che avrebbe dormito al lago, a Rivoltella, dove i suoi genitori hanno una casa di vacanze. Invece Manuela, sin dalle sei di quel pomeriggio era con Fabrizio per una serata insieme prima delle rispettive partenze per le vacanze. Fabrizio Pasini era solo a Ospitaletto, dove viveva con la moglie e i figli che doveva raggiungere in Sardegna a giorni. Con loro c’era anche sua mamma, come una normale famiglia che condivide la vacanza con nuora e nipoti.

Sembrava normale la vita del 48enne  Fabrizio Pasini. Lavoratore, sposato con prole, impegnato attivamente nel sindacato di categoria, simpatico, pieno di amici, giocatore appassionato di rugby e di softair. Ecco. Il softair lo rendeva invece un po’ sospetto, perchè non è un gioco, come viene definito per sminuirne la portata psicologica e ideologica: è una simulazione di violenza di guerra. Tradotto significa tiro tattico sportivo che simula appunto tattiche militari con l’uso delle armi.

A Nave, in provincia di Brescia, dove Manuela viveva con l’ex compagno di vita e poi solo di alloggio, Matteo, erano state installate telecamere di sicurezza. Molte villette in provincia di Brescia le hanno messe, su strada, come deterrente per rapine e furti. Manuela si vede uscire, prendere l’auto e sparire dalla strada. La sua auto verrà ritrovata solo dopo molti giorni a Brescia, in via Milano, nel parcheggio di un supermercato Esselunga. Ce l’ha messa lei. Lì ha dato appuntamento a Fabrizio e si è spostata sulla sua auto per passare qualche ora insieme. Ai carabinieri, che l’hanno interrogato dopo la scomparsa della ragazza, ha detto: sì l’ho vista venerdì per un aperitivo con i colleghi al sindacato, sì abbiamo avuto una relazion, ma era finita da un anno.

No, la relazione con un uomo sposato che ti piace molto e che speri lasci la moglie per te, è difficile da chiudere. Ancora di più lo è se lui afferma continuamente che sì, la lascia, che ti ama, che vuole solo te, però alle parole non fa mai seguire nessun fatto.  Sposato o no, Fabrizio aveva le idee chiarissime: con Manuela voleva quello che lei offriva e lui era costretto a dirle bugie per tenersela. Si badi bene: costretto. E’ questa una parola che nasce da una precisa distorsione mentale, visto che nessuno può costringere un altro a mentire. E’, questo, un concetto distorto che serve a mantenere l’ego intatto: lei mi vuole, lei non mi può rifiutare, lei non mi può obbligare. Però io voglio, e per avere devo mentire.  Se lei non chiedesse, io non dovrei mentire.

E’ chiaro?

Così si comincia a tratteggiare l’identikit di un narcisista. Proprio quello che attraeva tanto Manuela, confusa dalle sue parole contraddittorie ma non dai suoi atti contradditori. Incapace di liberarsene (perchè in fondo con lui male non si sta) e di smettere di sperare (perchè in fondo lui non la lascia e rischia anche lui, nascondendo la doppia vita alla moglie). Anche Manuela finisce nella menzogna, senza volerlo davvero. Del resto per amare un bugiardo bisogna accettare anche le sue bugie, giustificarle, sperare che smetta di dirle e che l’amore faccia il miracolo.

Dell’infanzia di Fabrizio Pasini non si sa niente. Lo sapranno, forse, i giudici, nel caso venisse fatta fare una perizia. Lo sa di sicuro sua madre, anche se magari l’ha scordato o l’ha giustificato perchè bambino. Fabrizio, con ogni probabilità, ha sempre usato la menzogna.

Adesso ha 48 anni e mentire diventa un gioco da ragazzi. Appena l’hanno arrestato ha ammesso di averla uccisa e l’ha motivato così: “E’ caduta dalle scale durante un litigio”.  La menzogna, dopo un arresto con l’accusa di omicidio, è piuttosto normale. E’ una difesa. Ma non tutti mentono. Non mente chi ha ucciso e non voleva farlo. Non mente chi ha ucciso e soffre amaramente per averlo fatto. E’ persino disposto a pagare e pagare duramente.

Fabrizio no. E’ uno che non vuole pagare mai. Non so perché, ma scommetto che era anche tirchio, e se pagava lo faceva solo ogni tanto, peché doveva ottenere qualcosa.

Manuela e Fabrizio sono andati a casa della mamma di lui, a Ospitaletto, dove è successo qualcosa che ancora non sappiamo. Sappiamo però che in due o tre ore in quella casa lui si è incrinato una costola. Un uomo grande e robusto e sportivo può incrinarsela mentre gioca a rugby o durante la tattica di guerra. Difficile pensare che Manuela, con i suoi 35 anni, donna e fisico normale, possa avergli dato un manrovescio tale da provocare un danno simile. Di fatto però sono andati al pronto soccorso degli Spedali Riuniti di Brescia insieme e tra l’attesa e la visita hanno trascorso diverse ore tanto da rientrare a Ospitaletto, a casa della madre di lui, solo alle 3,59. L’orario è precisissimo perché è stato ripreso dalla telecamera della vicina di casa che punta dritto sull’auto che Fabrizio parcheggia mentre Manuela lo attende sul marciapiedi. La stessa telecamera inquadra, con la prima luce del giorno, Fabrizio da solo alle 6,04, in ciabatte e a torso nudo. Il suo avvocato dirà poi: “Si vede che non stava bene, la camminatura indica una persona fisicamente sofferente, perciò non può essere stato un omicidio premeditato”.

Dopo avere ucciso la tua amante tagliandole la carotide col coltellino, sicuramente non stai bene.

Il cadavere di Manuela è rimasto in quella casa un paio di giorni. Forse Fabrizio non era in grado di pensare come disfarsene ma quando l’idea è venuta l’ha fatto alla perfezione, da freddo omicida. Ha avvolto Manuela in un sacco di plastica nero, l’ha caricata nel baule e trasportata in un luogo che ben conosceva: i campi del Cremonese che confinano con la provincia di Brescia. L’ha seppellita dentro un contenitore di letame di una cascina, proprio lì dove andava con gli amici a giocare alla guerra.  C’è una sorta di sfregio psichico in questa tomba, oltre alla necessità di occultare un corpo.

Il giorno successivo è andato al sindacato a salutare prima che questo chiudesse per ferie. Non gli uffici del Caf, ma quelli di categoria dei trasporti e regionali. Lo ricordano, i dirigenti, assolutamente normale. Come era sempre stato. Non ha fatto trapelare neppure una lacrima di sudore da ansia di venire scoperto.

Per non fare insospettire i familiari dell’assenza di Manuela, ha inviato vari sms, ma proprio questi, invece,hanno puntato su di lui l’attenzione. Perché la scrittura, anche se con una tastiera, rivela molte cose di noi.

Freddo, calcolatore, senza alcun rimorso. Preoccupao solo di non farsi beccare e fingere nuovamente una vita normale di bravo marito, padre, figlio, lavoratore e sindacalista.

E poi è partito, come da programmi, per raggiungere la famiglia in Sardegna dove è rimasto, come da progammi, 15 giorni. Appena a casa ha trovato i carabineri che l’ aspettavano per mettergli le manette.

A lui erano arrivati abbastanza in fretta, grazie alle telecamere e alla famiglia di Manuela, che sapeva della storia con l’uomo sposato e ha sospettato di lui e non dell’ex Matteo che è stato accusato subito sui social, ma non dal Prouratore che indagava, perché si presume che un ex debba essere l’assassino.

Perché Fabrizio ha ucciso Manuela? La confessione completa e veritiera non c’è stata, ma a parlare per lui c’è il comportamento tenuto e questo dovrebbe bastare. Invece non basta. Non basta alla gente, non basta all’ex compagno, non basta alla famiglia. Al sindacato non sanno cosa pensare. Sono sconvolti. Non ricordano Manuela preoccupata o tesa l’ultimo giorno di lavoro. Non ricordano niente che possa avere detto o persino nascosto. Invece Manuela teneva nascosta una relazione che sperava un giorno si potesse mostrare alla luce del sole. E forse nascondeva anche tanta rabbia.

C’è del vero nelle poche affermazioni fatte da Pasini all’arresto (abbiamo litigato) ? Forse sì. Forse lei ha anche alzato il tiro del litigio, incapace di accettare ancora una volta che lui preferisse la moglie a lei. Che lui non fosse capace, menozognero quale era, di raccontare una  bugia alla moglie e riuscire a fare almeno qualche giorno di vacanza insieme.  Se così fose andata, però, si esclude il delitto premeditato che invece sospetta fortemente la Procura per via, soprattutto, di quei due coltellini (uno  non si trova) che Fabrizio aveva in auto. Ma anche della casa-trappola, dell’appuntamento prima di allontanarsi, del momento favorevole (poca gente in giro) per compiere un delitto che desiderava mettere in atto. Perché, probabilmente, il conflitto tra menzogna e verità era diventato insopportabile anche a se stesso.

Sono girate voci, prive di fondamento, subito dopo l’arresto e il ritrovamento del corpo. Manuela era incinta. Manuela le ha imposto di lasciare la moglie o glielo avrebbe fatto sapere.  Nessuno ha fatto trapelare ufficialmente niente, perciò  sono prive di fondamento le tipiche motivazioni che hanno provocato altri femminicidi, il peggiore proprio a Brescia, quello della sudamericana Marilia, uccisa e bruciata dal pilota-amante.

Manuela ha pagato con la vita, anche lei, l’avere sottovalutato i segnali di pericolo, sfidando il lupo cattivo che alberga nei narcisisti maligni come Fabrizio Pasini.

Di tutta questa storia io mi chiedo solo una cosa, e ossessivamente: come ha fatto Pasini a restare 15 giorni con figli, moglie e genitori senza fare trapelare niente dell’orrore che aveva saputo compiere e che non era più solo un gioco violento nei campi.  Me lo chiedo pur avendo, purtroppo, anche la risposta: i narcisisti maligni sono falsi e non sanno provare nè amore, nè dolore, nè rimorso.

 

Messico, omicidi e potere. Tre arresti per i napoletani scomparsi

Il 2 luglio a Tecalitlàn, nello stato di Jalisco, in Messico, è stato ucciso con una raffica di proiettili il sindaco Victor Diaz de Contreras. Aveva 28 anni e tra poco sarebbe diventato papà. Due giorni prima aveva postato sulla sua pagina Facebook le foto dell’auto di suo fratello con i vetri rotti e il contro avvertimento: non ci faremo intimidire. Il giorno dopo, il Messico aveva eletto il nuovo presidente, a sorpresa per tutti, un socialista populista. Victor Diaz era tra i miei contatti Facebook dai primi di febbraio, quando ho iniziato ad indagare sulla vicenda dei tre napoletani scomparsi proprio nella sua cittadina. Ero stata così tempestiva da riuscire a parlargli prima di tutti i colleghi, appena è uscita la notizia che nel suo Municipio erano stati arrestati tutti e 33 i poliziotti municipali accusati dal giudice (la fiscalia dello Stato) di avere avuto a che fare con il rapimento di padre, figlio e cugino (Russo e Ciammino) che in Messico vendevano ufficialmente truffaldini macchinari. Il capo della polizia era addirittura scomparso giusto a ridosso dell’arresto e di lui (almeno noi) nulla abbiamo più saputo. Azzerata la polizia e costretta a parlare, era saltato fuori che almeno 4 poliziotti (tra cui il capo) avevano preso soldi (pochissimi per la verità) per vendere i tre a un certo don Angel ritenuto intermediario del cartello della droga locale, la Generacion Nueva Jalisco.  Victor Diaz mi è sembrato subito un ragazzo senza pelo sullo stomaco che negava l’evidenza e spostava i discorsi in modo troppo ingenuo per essere scafato. Mi ha parlato a voce e per messenger e più mi parlava più ingenuo mi pareva. Ha subito negato con decisione di aver mai saputo qualcosa della sua polizia municipale benchè fosse sindaco da 4 anni, benchè fosse nato in quell’ambiente corrotto ( come in tutto il Messico, soprattutto i piccoli paesi) e benché lavorasse tutto il giorno nello stesso palazzo dove ha sede il comando di polizia.  Se anche sapeva, a me è parso uno che non raccontava niente in giro se non altro per salvarsi la pelle. Mi è risultato da subito molto difficile pensare che facesse parte della combriccola e forse è stato proprio così o non l’avrebbero crivellato di colpi in auto insieme a una collaboratrice comunale. Non si difendeva nemmeno con scorte o chissà che. Anni prima, appena eletto, aveva avuto minacce forti perchè il suo partito era minoritario o, sarebbe più corretto dire, non era infilato come gli altri nello stesso giro dei cartelli che a decine comandano in vari stati messiccani dopo la cattura dei boss che tutto, prima, controllavano. Il rischio di fermare i boss è sempre quello di favorire la nascita di gruppi minori, totalmente fuori controllo sui territori. Così era ed è anche a Jalisco, dove i morti ammazzati non sono solo cittadini più o meno onesti, ma soprattutto esponenti di bande di delinquenti che solo in parte sono collegate alla vendita della droga. Cosa ha collegato un ipotetico don Angel intermediario tra la polizia di Tecalitlan e il cartello dei narcos di Jalisco con tre napoletani che vivevano di truffe? Cosa ha collegato, se è collegata, la sparizione dei tre nello stesso giorno e nello stesso luogo (il distributore di benzina al confine del paese) con l’omicidio, 5 mesi dopo e a due settimane dalla sua possibile rielezione a sindaco, il giovane Victor Diaz, il “presidente” come là si definisce, di Tecalitlan? Per il magistrato che indaga, i collegamenti sono possibili. L’ha detto ieri, dopo aver arrestato tre personaggi in relazione alla scomparsa dei napoletani. Altri 600 messicani (e alcuni italiani) non sono mai più stati ritrovati a Jalisco, ma per i napoletani (di cui uno pregiudicato e latitante per l’Italia) sembra che le indagini siano state più mirate. Forse è stata solo l’occasione giusta per fare pulizia di qualche (ormai) fastidioso nuovo boss della droga.

Il boss in cella è soprannominato “El 15”, ma il suo nome è don Lupe, presunto capo regionale del Cartel Jalisco Nueva Generacion. L’hanno catturato domenica gli uomini dell’Agenzia Nacionale di Investigazione Criminale  a Zapopan, una località dello stesso stato, alla periferia di Guadalajara. Insieme con lui sono stati catturati anche Josè Guadalupe N e Junior, probabilmente padre e figlio.

Don Lupe, el 15, coordinava la vendita e il trasporto della droga in almeno otto cittadine, tra le quali Tecalitlan, e tre porti (la droga si invia per nave in Usa ed Europa).

Erano stati i poliziotti municipali arrestati a spifferare in fretta al giudice (non sono esclusi pestaggi  della polizia di Stato e dell’esercito per farli parlare) che avevano consegnato loro, su ordine del capo della polizia municipale, i tre napoletani a un cartello di criminali locali. Non restavano molti dubbi sul fatto che il napoletano Antonio Russo non fosse estraneo a un accordo disatteso che prevede, ben peggio che a Napoli, una punizione esemplare e definitiva. Russo era abituato al massimo a pensare a un arresto e forse credeva di sapersi muovere bene in ambienti di altissima corruzione e gente che non dice una parola ma agisce con l’inganno e una rete di potere in stile mafioso e omertoso insieme.

El 15 era ricercato da tempo per diversi crimini, uno dei quali particolarmente odioso per lo stato messicano: aveva aggredito agenti della Marina Armata del Messico in Ciudad Guzman, stesso distretto di cui fa parte la cittadina dove El 15 aveva il suo quartier generale.

Victor Diaz, che era solo un ragazzo, potrebbe essere stato eliminato per diverse cause, una delle quali è la mancanza di copertura che prima aveva (del partito cui apparteneva) e gli potrebbe essere venuta a mancare. Un’altra ragione potrebbe essere il suo tirare dritto senza volersi piegare al riconoscimento del potere (chi non denuncia dovrebbe partecipare sottomettendosi o diventa pericoloso) locale del narcotraffico o suoi amici deliquenti che hanno bisogno del via libera comunale per agire indisturbati. Posso sbagliarmi sul conto di Victor di cui so troppo poco, ma il dispiacere di non essere riuscita a parlargli il giorno che ha postato le foto dell’auto del fratello, è stato enorme. Posso azzardare che fosse stato eletto proprio perché ingenuo, e il rischio della rielezione con consensi maggiori da parte del popolo onesto e umile che amava molto e lo ricambiava, era troppo concreto per un cartello che fa traffici milionari e non ha mezzo scrupolo a punire o far fuori chi sgarra o lo ostacola.

 

SE FOSSE OGGI IL DELITTO DELLA CATTOLICA

24 luglio 1971, sabato mattina, Università Cattolica di Milano.

Una ragazza di 26 anni, Simonetta Ferrero, muore accoltellata nei bagni.

 

Dopo 48 anni  e tanti altri femminicidi come questo, un nuovo sguardo sulle indagini di allora e le numerose imprecisioni riportate nel corso degli anni da giornali e blog di nera su uno dei rari delitti efferati avvenuti a Milano. Un cold case che forse tanto freddo non è.

milanoluglio-6.jpg

La ricostruzione dell’omicidio di Simonetta mi stava particolarmente a cuore. Una sorta di testardaggine che ho verso tutti i casi irrisolti di donne massacrate e in particolare di questo, avvenuto nella mia città, e che ho conosciuto solo dopo molti anni, quando ero già giornalista di cronaca nera ma non avevo ancora l’esperienza di oggi.  In rete si trova moltissimo di questo caso ripreso un po’ da tutti i colleghi neristi e da altri che tengono solo in piedi i vecchi casi senza aggiuNgere nulla di più.  La prima cosa che salta all’occhio è la mancanza di fonti certe, come se nessuno abbia avuto accesso ai verbali dell’indagine di allora, con il risultato che le coltellate date a Simonetta sono per alcuni 33 e per altri 44, che Simonetta per alcuni è andata in corso Vercelli da un tappezzerie e per altri dal tappezzerie di via Lulli non sarebbe mai arrivata. Che si sarebbe alzata alle 9,30 e sarebbe uscita alle 10 e 30 da casa e sarebbe stata uccisa prima di mezzogiorno dopo aver fatto almeno tre soste per acquisti in una zona non vicina a casa sua. Che gli operai che quel giorno lavoravano lì sarebbero usciti alle 12 e insomma, l’imprecisione non aiuta a ricostruire, anche se, nel 1971, si presuppone che le indagini della Questura di Milano questa confusione non l’abbiano fatta. Perciò, quello che conta oggi è rileggere con occhi diversi un mistero che mistero potrebbe non essere. Di sicuro, solo 15 anni dopo, il dna avrebbe fatto uscire o entrare nella scena del delitto le persone che erano presenti quella mattina in Università. Poche, pochissime: una cinquantina. Di sicuro, i casi come quello di Simonetta, o di Lidia Macchi, anche lei della Cattolica ma uccisa a Cittiglio (Varese), che invece nell’87 ha rivelato il dna restando comunque irrisolto per 40 anni, sono stati casi difficili perché interpretati con pochi e conosciuti metodi di indagine.

Milano nel 1971 aveva i tram colore verde militare. Era una città in subbuglio, cupa, violenta, ribelle e repressiva. Contava un milione e 700 mila abitanti con classi sociali più basse che alte, periferie cresciute in fretta e furia, rapinatori in bande, uomini che mostravano i genitali alle ragazze per la strada o le importunavano apertamente, con rivolte studentesche e operaie, manifestazioni e cariche della polizia. Con arrampicatori sociali senza scrupoli e trame nascoste di potere finanziario a livelli alti, altissimi, quelli che poi decideranno le sorti dell’Italia. C’erano movimenti ribelli, non solo politicamente. C’erano gli hippy, quelli che si spulciavano in pubblico (come li definiva allora il Corriere della Sera), figli dei fiori importati da altre culture, e c’erano gli scontri tra destra e sinistra, fili neri di stragi che diventeranno una vera strategia della tensione dal 1969 con la bomba di piazza Fontana. C’erano occupazioni di stabili, come quella proprio in piazza Fontana. C’era disagio e voglia di reagire al disagio, chi in un modo chi nell’altro. C’era, sicuramente, una violenza diffusa, ammessa ma repressa senza guardare troppo verso chi si dirigeva. Come la notte al Vigorelli del 5 luglio 1971 quando la polizia ha caricato una folla mista che inneggiava con potenza ribelle ai Led Zeppelin e le loro urla di guerra vichinghe e la voce di un Gianni Morandi che ben rappresentava la massa che voleva dimenticare la difficile quotidianità.  Le temperature di quell’anno non erano così alte. Era una estate, come alcune precedenti e alcune successive, considerata fresca, cioè intorno ai 27 gradi. E agosto era più caldo di luglio. La gente andava in vacanza tutta insieme, per 15 giorni al massimo. Le attività riaprivano subito dopo Ferragosto.

Chi poteva permettersi vacanze più lunghe era considerato ricco e ricco lo era davvero. In generale, chi era in età di lavoro, qualunque professione facesse, restava anche a fabbriche chiuse a controllare, andava e veniva dal mare, ma restava, come si direbbe oggi, reperibile. I commercianti, allora tantissimi a Milano, staccavano lasciando anche la città in mutande solo nelle zone centrali e per una decina di giorni. I numerosi meridionali tornavano a casa, le scuole chiudevano per tre mesi e si andava alle colonie estive in Liguria o a Clusone o in quelle cittadine, come il Trotter.

Simonetta Ferrero era di famiglia benestante. Era nata a Casale Monferrato, in Piemonte, e si era trasferita alla fine dell’adolescenza a Milano perché il padre, ragioniere, aveva trovato posto alla Montedison appena nata (la fusione tra Montecatini e Edison) con sede in piazzale Cadorna. Erano andati ad abitare in una zona da un lato bella e dall’altro no, scomoda per il centro, e a quei tempi, a tratti,  persino pericolosa: via Osoppo, vicinissima a piazzale Brescia e alla sua monumentale chiesa.

Simonetta era molto credente e praticante, così come la sua famiglia. In famiglia c’era uno zio monsignore e lei aveva studiato dai salesiani prima di iscriversi alla Cattolica. Era molto impegnata anche in associazioni di volontariato tipiche di allora: la San Vincenzo e la Croce Rossa. Mondi abbastanza altolocati ambiti proprio dalle famiglie introdotte nel circuito della Chiesa.  Simonetta, seconda di tre figlie, viene descritta per quello che era: poche parole, nessun fidanzato nè flirt conosciuto in casa, rigida, studiosa e con ambizioni ben chiare: fare un lavoro importante e sposare a tempo debito uno importante. La prima ambizione viene presto raggiunta, a fine università, Scienze politiche, considerata di preparazione generica e non specialistica: il padre, come allora si usava fare con grande facilità, la fa entrare alla Montedison dove subito si occupa di decidere le sorti dei neo laureati che vogliono far parte del più importante gruppo economico di allora. E’ professionalmente dura: risponde alle direttive e non lascia margini alle intuizioni. Razionale e calcolatrice non ha sensi di colpa, ma doveri e morale cui rispondere.

La sua obbedienza a direttive superiori fatte proprie, deve averle dato una buona dose di senso di indipendenza se quella mattina del 24 luglio ha previsto di fare diverse cose in poche ore, solo in parte di aiuto alla famiglia e altre per sè che chi aveva un po’ di soldi, così giovane e in quell’epoca, poteva permettersi. La sua autonomia di quella mattina perciò va inquadrata in quel “io posso” farlo, io ce la faccio da sola. Non sappiamo se la sua famiglia fosse in completo accordo con lei, però sappiamo che hanno atteso poche ore a fare la denuncia di scomparsa e sappiamo che alla notizia della sua atroce morte, padre e madre hanno avuto un malore e neppure se la sono sentita di riconoscere il cadavere.

La scala G dell’Università Cattolica, l’ex antico convento con preziosa biblioteca dell’attigua Basilica di Sant’Ambrogio, si trova nel secondo cortile ideato dell’architetto Filarete, lo stesso che ha progettato quelli dell’Università Statale quando sorse come ospedale cittadino sotto i Visconti. E’ una scala stretta che porta al secondo e ultimo piano. Essendo sati concepiti come piani alti, c’è un ammezzato che sembra un primo piano. Oggi c’è una porta chiusa, e i bagni sono stati distrutti, ma nel 1971 c’era il portone che conduceva ai bagni delle donne. Si badi bene: portoni alti e robusti. E si badi ancora bene: i bagni, anche oggi, di donne e uomini sono ben divisi e lontani l’uno dall’altro. Perciò, chi entrava in quel portone, poteva solo essere donna e solo avere bisogno della toilette.

Quel sabato del 24 luglio 1971, Simonetta è uscita di casa verso le 9,30 (le notizie riportate non coincidono, qui si cerca l’orario più logico) dicendo che sarebbe rientrata per pranzo. A che ora? Si può supporre che a quel tempo e in quella casa un po’ borghese si pranzasse intorno alle 13. Aveva molte cose da sbrigare Simonetta, forse un po’ troppe per i tempi stretti. Per andare in corso Vercelli, sua prima tappa per comprare un dizionarietto tascabile italiano-francese dovendo partire la sera stessa con la nave per la Corsica in vacanza con la famiglia, ha dovuto prendere il tram numero 16 (e non il 15 come è scritto ovunque) unico che fermava in piazzale Brescia angolo via Osoppo e percorreva corso Vercelli e corso Magenta. Sappiamo poco delle sue soste con orari precisi perchè non esistevano gli scontrini fiscali e perché, pare, nessuno si ricordi di lei. Però sappiamo con certezza che nella sua borsa gli acquisti fatti sono stati ritrovati dalla polizia.

Simonetta andava in una zona che ben conosceva perché la percorreva ogni giorno e potrebbe essere solo questo il motivo per cui ha scelto di fare acquisti in quella zona e non nella sua. Ma c’è un altro motivo: il tappezziere al quale doveva portare dei campioni di stoffa per le sedie di casa, commissione datale dalla madre. Un po’ strana per la verità il 24 di luglio, a ridosso della chiusura estiva, ma non si può escludere che gli artigiani lavorassero in agosto e la famiglia pensò di trovarsi il lavoro pronto al rientro. Ciò che è certo è l’acquisto del vocabolarietto, della stoffa mai consegnata e dei profumi acquistati in Galleria Borella che si trova tra via Carducci e le due piazze, quella della Basilica di Sant’Ambrogio e quella della Cattolica, largo Gemelli. Oggi non passano più le auto, ma a quel tempo sì. Perciò dobbiamo immaginare una Milano trafficata, con gente in giro e donne benestanti della zona che al sabato mattina andavano in profumeria. Pare ovvio che quella profumeria è stata scelta da Simonetta perchè la conosceva o non avrebbe senso il giro che ha fatto. La sua laurea risale a 2 anni prima e quella galleria, essendo nascosta e di collegamento, è nota ai residenti o a chi frequenta la Cattolica. C’è comunque una stranezza anche nel percorso di Simonetta: se  proveniva da corso Vercelli che poi prosegue in corso Magenta, a piedi o in tram, è sbucata di fronte al bar Magenta di via Carducci e nessun universitario passa da via Carducci, semmai dalla vietta laterale che in due minuti conduce a largo Gemelli, di fianco alla sede, enorme, della polizia, che da sempre è anche un convitto per poliziotti non residenti a Milano. Anche chi vorrebbe andare in un negozio della Galleria taglia nello stesso punto. Perchè è così importante? Perchè si sarebbe trovata alla Università subito e non dopo l’acquisto di profumi. Perciò dobbiamo fare altre ipotesi: Simonetta non passa mai da via Carducci, ma taglia, come tutti,  dal retro del bar Magenta, attraversa largo Gemelli e va alla Galleria. Solo all’uscita decide di andare in Università dove ha messo piede l’ultima volta due settimane prima per prendere delle dispense per la sua amica, dispense che però non le ha consegnato, essendo state trovate in casa sua. Se effettivamente doveva andare anche in via Lulli, che si raggiunge proprio fiancheggiando la Cattolica e la caserma della polizia, il percorso è corretto. Quindi, regge l’ipotesi che in Cattolica ci sia andata perchè aveva bisogno del bagno e il bisogno l’ha avuto solo dopo aver comprato in profumeria dove non si ricordano di lei per il numero di clienti presenti e forse la fretta dell’acquisto.  Quella del bisogno del bagno è una ipotesi di polizia fatta tenuto conto di due fattori; uno, che è stata uccisa nei bagni, due che l’autopsia ha trovato la vescica svuotata, cosa impossibile se non avesse effettivamente evacuato, avendo fatto colazione intorno alle 9. La polizia però si è un po’ rotta la testa sul perché avesse scelto proprio quei bagni. Non erano della sua facoltà e nemmeno i più vicini all’entrata. Ci viene in aiuto la logica femminile: Simonetta sa che il 24 luglio le facoltà sono chiuse. Sa anche che la biblioteca è aperta e si trova proprio in quell’area dell’Università. Ma sa anche che se fosse andata nei primi bagni vicini all’entrata, col portiere che tutto può vedere da lì, si sarebbe un po’ vergognata ad usare l’Università che non frequenta più da due anni solo per una questione fisologica come fosse stato un bagno pubblico. Non è la sola a fare la stessa cosa: io uso lo stesso criterio. Perciò questo escluderebbe un ragionamento complesso, tipo quello dell’appuntamento segreto, nei pressi della biblioteca, che pure è stato tenuto in considerazione.

Quella mattina ci sono diversi persone. Che ore erano? Facendo calcoli un po’ approssimativi, probabilmente era poco prima di mezzogiorno. Il tram da attendere, il percoso di 20 minuti, i due negozi, la camminata e infine la pipì. Però siamo abbastanza sicuri che fosse prima di mezzogiorno, perchè i muratori sotto l’ammezzato hanno staccato giusto a quell’ora, come tutti i muratori.

Certo quei muratori sono provvidenziali all’assassino e una grande sfortuna per Simonetta, perchè usano il martello pneumatico e nessuno sente le sue probabilissime urla.

Simonetta entra in bagno tranquilla, con la borsa nera in mano. All’uscita, nell’antibagno, apre un rubinetto dell’acqua per lavarsi le mani e non si accorge di una persona che è entrata e non è una donna. Anzi: è una furia con un coltello in mano. Come nei peggiori thriller, il luogo dove la donna e più indifesa e la sorpresa giocano un ruolo fondamentale. Nonostante tutto, Simonetta si difende cercando di evitare i colpi. Si sa quello che ha cercato di fare, dalle ferite sulle mani, tipiche da difesa, e dalle manate di sangue lasciate ovunque nel piccolo anti bagno. Non riesce però ad uscire, segno che l’assassino oltre a colpire ripetutamente, la costringe più a difendersi che a tentare di scappare. Lui è furibondo e deciso; le infila un coltello di almeno 15 centimetri di lunghezza e due di larghezza nel petto e nell’addome e nel collo. I colpi sono 33 o 44, ma poco conta: quelli mortali sono 7 e il numero alto indica soltanto l’energia e il desiderio di uccidere in questo caso rinforzato dalle difese di lei che prolungano la volontà di ammazzamento calda, bollente, decisa.

In criminologia si definisce overkilling e si inserisce tra i delitti passionali (passione non significa della sfera affettiva specifica verso quella persona) con o senza intenzione di violenza sessuale. Che infatti non c’è stata e nemmeno tentata. E sarebbe più corretto deinirlo delitto pulsionale.

Le indagini hanno cercato di capire soprattutto due cose; come è uscito di lì, senza farsi vedere da nessuno, l’assassino? E come ha potuto uscire imbrattato di sangue?

Che lo fosse pare evidente: le ferite di Simonetta sono numerose, profonde alcune e superficiali altre, e hanno prodotto moltissimo sangue, sicuramente anche a schizzo. I movimenti della ragazza inoltre, hanno comportato anche quelli dell’assassino che cercava di colpire con un coltello da subito scivoloso essendo il sangue vischioso. E’ parso evidente subito che l’assassino si debba essere ferito alle mani a sua volta proprio per i numerosi colpi inferti a un soggetto in rapido e continuo movimento e per la scivolosità del coltello che inpugnava. Motivo di più per non capire come abbia pensato di uscire senza essere notato e, addirittura, senza lasciare sgocciolamenti ovunque. In effetti le ricostruzioni su questi punti sono davvero lacunose; sembra quasi che non sia stata rilevata nessuna traccia di sangue, nè orme insanguinate, dall’ammezzato all’uscita, neppure sui gradini. Cosa quasi impossibile. Si è trovato però una cosa ben peggiore, per un assassino così fortunato o preparato a non essere visto da nessuno: sulla porta del bagno, esternamente, c’era una manata interpretata come quella di uno che si appoggia per vedere se passa qualcuno prima di fuggire. Quella manata indica il gruppo sanguigno e l’altezza del killer; sopra l’1,80. A quell’epoca non era facile trovare altezze simili. Forse solo in alcune zone d’Italia, i nati tra il 30 e il 50 (ipotizzo un’età plausibile, essendo il 1971), avevano genitori alti. La maggior parte era al Nord. Ma la maggior parte non è accettabile come ricerca di possibile killer. Il gruppo sanguigno è stato definito comune, e perciò si intende il gruppo A. Il dna non era possibile trovarlo all’epoca, perciò restava l’uso del cervello e il controllo degli alibi: ben 350 persone sono state convocate e controllate.  Niente. O niente allora.

L’università chiude. Tutti escono. Nessuno usa i bagni. Nessuno sa che lì c’è stata una lotta ed ora è un mattatoio con un cadavere nel mezzo.

Ore 8,45 di lunedi mattina, due giorni dopo. Una ragazza appena arrivata forse da fuori Milano, sale all’ammezzato ed entra in bagno. La maniglia della porta è sporca, è sangue rappreso, ma la ragazza non lo sa e la apre lo stesso. Vede Simonetta a terra rannicchiata e un disastro tutto intorno a lei e sui muri. Scappa e va dal portiere di corsa. Il portiere chiama la polizia. Al pomeriggio si presenta un seminarista di 21 anni che viene da ìl Monferrato, esattamente dal seminario di Mirabello dei salesiani di don Bosco dove vive. Racconta una strana storia:

Questa mattina sono andato in Cattolica, dove sono iscritto a Filosofia, per controllare la posta in ufficio posto nel corpo G, e passando sulla scala ho sentito provenire un rumore di scroscio d’acqua da una porta. In seminario mi hanno abituato a non sprecare nulla e perciò ho deciso di andare a chiudere quel rubinetto. Ho visto il corpo e preso dal panico sono scappato. Ho preso il treno e sono tornato in Monferrato.

Il seminarista si chiama Mario Toso, ha 21 anni ed è nato a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso. Presumendo che sia stato iscritto a Filosofia da due anni, la prima incongruenza è che nel suo curriculum, corposo, che si trova in internet, la sua laurea è del 1978.

La polizia di lui sospetta, ovviamente. Dice di avere trovato il cadavere,  dice di essere scappato, e nemmeno a farlo apposta, quel seminario salesiano, come scuola superiore, è stato frequentato anche da Simonetta. I due però hanno 5 anni di differenza e non potevano conoscersi.

Il capo della Mobile Enzo Caracciolo rumina come i cavalli: che diavolo ci faceva in un bagno femminile un maschio e per di più futuro prete?

L’avvocato di Toso sostiene due cose, quasi inattaccabili: non ha ferite da taglio alle mani nè macchie sui vestiti, che sono gli stessi che indossava.

Sì, ma quando? Sabato? E chi poteva dirlo? E come vestivano i salesiani allora?

Toso vene ordinato prete nel 1978, giusto l’anno della sua laurea.

La polizia che è certa delle ferite che l’assassino dovrebbe avere riportato, non trova nulla a suo carico. E non verrà mai più disturbato.

Mario Toso farà una carriera di tutto rispetto nella Chiesa. Dopo la laurea alla Cattolica ne prende un’altra a Roma, in Teologia e inizia a insegnare Filosofia all’Università Pontificia salesiana. Resta a Roma fino al 2015. Benedetto XVI lo ordina vescovo nel 2009 e intanto ricopre la carica di segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (dal 2009 al 2015). Collabora alla stesura del Cariras in Veritate del Papa.

Ne 2015 Papa Bergoglio lo manda nella diocesi di Faenza Modigliana, in Emilia, 120 mila fedeli, dove si trova tuttora.

Da dove è fugguto l’assassino quella mattina di 48 anni fa?

Si è sempre ipotizzato dal portone centrale. Il portiere, che dice di non averlo visto, o  non aver visto nessun sospetto, non è affidabile: io stessa sono entrata due giorni fa (ma anche molte altre volte nel passato) e stava parlando con alcune persone. Eppure le lezioni sono finite e non si sa bene cosa ci stia a fare un portiere che lascia entrare persone adulte che non conosce come professori. Nessuno però ha ipotizzato, per lo meno dalle ricostruzioni che ho trovato, che potesse essere uscito, e magari anche entrato, dal cancello secondario, subito dopo il cortile, che sfocia sulla piccola via San Pio V che si snoda poi in  via Lanzone, vecchia Milano medioevale dove passano pochissime persone anche nei giorni feriali. Se il cancello fosse stato chiuso (ma chissà), non era impossibile scavalcare o conoscere punti facili per farlo. Già. Ma come la mettiamo con i vestiti insanguinati? Una ipotesi è che si sia coperto con qualcosa di lungo (e non certo come ho letto, che potesse essere nudo durante l’omicidio o che si sia cambiato proprio in quel bagno!). E le ferite alle mani? Se avesse avuto i guanti spessi li avrebbe tenuti anche prima di uscire e mai avrebbe lasciato l’impronta della mano sulla porta. Ma siamo sicuri che si è ferito alle mani solo perché tutto lo lascia presupporre?

Questo è un omicidio premeditato.

Uno che si porta un coltello di 15 o 20 centimetri da casa ha previsto di usarlo. E di usarlo contro una ragazza.

E il movente?

Rabbia, rancore, narcisismo, psicopatia. Bisogno di fare del male, molto e molto, per vendicare il proprio male patito o immaginato. O per un conflitto insopportabile che deve sfogare nel peggiore dei modi.

E Simonetta?

Vittima a caso, ma non del tutto. Vittima in università, in un bagno e donna. Perché? Perchè parrebbe luogo conosciuto dal killer, perché le ragazze sono bersagli favoriti dagli psicopatici e il bagno implica sopresa e vulnerabilità superiore al normale e luogo nascosto ai più. Chi uccide scegliendo di uccidere non lo fa in piazza (o in un cortile universitario). Si nasconde perché non vuole essere preso. E infatti è andata esattamente così.

Il killer è perciò un vigliacco capace di grandi cose (narcisista) che sa tornare sul luogo sul delitto e poi compensarsi senza uccidere mai più. E senza mai venire allo scoperto.

Il capo della Mobile rimuginò su quel ragazzo quasi prete che raccontò di essere entrato nel bagno femminile per chiudere un rubinetto senza preoccuparsi dell’imbarazzo,  e poi di avere avuto paura e non pietà di fronte a un corpo martoriato.

Ipotesi. Suffragate dal nulla.

milanoluglio-8.jpg

 

Bruna Bianchi, giornalista

Milano

 

 

(Grazie alla dottoressa Malke Ursula Franco, criminologa, per le spiegazioni scientifiche)

 

Non è possibile copiare in parte o riprodurre senza autorizzazione.

E ‘ possibile condividire dal blog

 

 

 

 

 

 

 

 

Carlotto spiega il crimine in tv. Ma è un pregiudicato per femminicidio.

Massimo Carlotto e la paradossale difesa della sinistra anche 40 anni dopo.
Detto da una nerista di sinistra, anzi, estrema.

Stasera inizia la trasmissione “Criminal Minds” sui Rai4, una delle tante che vivisezionano per il pubblico i casi discutibili, quelli che fanno più audience che ricerca di verità. Non siamo nelle campo delle indagini, ma della ricostruzione dei casi.
Nemmeno a dirlo, chi sarà il conduttore? Lo scrittore Massimo Carlotto, considerato esponente di spicco del noir italiano.
Il primo ad attaccare la trasmissione è stato Il Giornale che si è fatto portavoce della famiglia, o quella parte politicizzata di essa, che ha chiesto di preservare la memoria della loro parente, Margherita Magello, la ragazza uccisa e Padova per il cui omicidio Carlotto è stato condannato, fuggito all’estero come molti intelettuali di sinistra (ma allora era un ragazzino di 19 anni…) e infine graziato su richiesta della sua famiglia dal presidente Ciampi.
Il Giornale fa una filippica di destra contro la Rai. E Il Manifesto una di sinistra, contro la famiglia, persino più dura.
Nessuna delle due entra nel merito nel caso Carlotto, giudiziario, nè del femminicidio per il quale è stato condannato, nè dell’opportunità, non tanto per la famiglia, ma per ragioni puramente morali, di mettere in tv uno che la giustizia ha ritenuto colpevole. I suoi libri si pssono comprare o no, ma la Tv è pubblica e il ragionamento va fatto. Come sempre è stato fatto per esponenti evidentemente di destra, o mafiosi, anche soltanto intervistati. Che privilegi ha Carlotto, a parte quello di essere stato graziato e dichiararsi innocente come tantissimi altri assassini? E perchè la sinistra ancora oggi (e cito il Manifesto di cui ho letto l’articolo in cultura) non entra nel merito del caso invece di fare il difensore politico a un fatto di cronaca nera, anzi, un femminicidio di una ragazza non politicizzata, 40 anni fa?
Io mi sono presa la briga di ricostruire quell’omicidio lo scorso gennaio. Ho impiegato diverso tempo e fatto diverse interviste, ho letto tutto quanto era disponibile e sono stata anche a Padova per rendermi conto con i miei occhi, come ho sempre fatto. Non mi sono, nemmeno per un momento, lasciata condizionare dalla politica di allora, stessa area mia, nè dai famosi avvocati (Pisapia) di allora o da tutta l’area che allora si è schierata con un ragazzino di 19 anni che ha raccontato, come fanno tutti coloro che non confessano (e perciò non ha nessun valore investigativo) come sono andate le cose secondo lui.
Il fatto incredibile, in un caso come questo, è che c’entri allora come oggi la politica. Qui si tratta di un banale, mi si passi il termine, caso di femmincidio dove non ci sono stati altri imputati nè sospettati e dove il futuro condannato ha ammesso di essere stato addirittura sulla scena del delitto ed essere poi fuggito. Quello che dispiace, e lo dico con amarezza, è che la destra o la famiglia che di sinistra non è (ma nemmeno è fascista) abbiano il potere di fare chiudere la sinistra e i cosiddetti intellettuali di sinistra a riccio su un caso di comune criminalità, neppure uno di quelli (tipo Battisti) che si possono inserire in un contesto politico dell’epoca. La morte di Margherita non ha niente di politico, proprio niente. E’ stato un omicidio scaturito da un impulso di natura sessuale. Purtroppo come tanti.
Massimo Carlotto si ritiene da sempre vittima di un errore giudiziario, come tanti. Vorrebbe, lui, come tutti gli intellettuali di fama, che si dimenticasse il passato. E invece, proprio per chi non ammette la sua colpa (e perciò nemmeno si è mai pentito), il passato resta vivo e deve restarlo per tutti. Chi crede all’innocenza di Carlotto, è libero di farlo. Come tantissimi credono ancora all’innocenza di Massimo Bossetti o di Annamaria Franzoni. Ma per avvocati, criminologi, giudici, magistrati e anche giornalisti di indagine, i casi discutibili (cioè quelli che lasciano qualche dubbio in assenza di confessione) l’unica verità vera è la condanna, in questo caso di primo e secondo grado, finché è sopraggiunta la grazia.
Siamo sicuri di essere coerenti? Siamo sicuri di non dare spazio alla destra solo perché la sinistra ha deciso che qualcuno è più intoccabile di altri? Siamo sicuri che un femminicidio consenta a uno condannato anche se 40 anni fa per femminicinidio (la grazia è del ’93) di intattenere il pubblico, spiegare, dettare ragioni, dall’alto delle sue conoscenze di crimine, in una tv pubblica?
I casi controversi sono sempre casi per i quali la difesa a spada tratta, se non è ben motivata nel merito, si ritorcono contro chi li sostiene.
Io sostengo che i partigiani hanno fatto bene ad uccidere. Ma non sostengo che un partigiano possa aver fatto bene ad uccidere una donna che non ci stava, solo perché mi conviene sostenere la lotta partigiana.

Ecco qui la mia ricostruzione del caso Magello-Carlotto.

Venti gennaio 1976. In via Faggin al numero 27 a Padova, fuori delle mura e non lontano dalla stazione, nella prima di una serie di villette a schiera rinchiuse da un cancello, abita Margherita Magello, 24 enne carina ma non appariscente, tranquilla studentessa lontana dalla politica che invece a Padova da un decennio agita i sonni di carabinieri e poliziotti. E non solo. Suo padre Giovanni, ingegnere, se ne era andato da quella casa a tre piani lasciando i due figli, Carlo e Margherita, con la moglie che tutti chiamano Mimì. Al piano di sopra, affittato giusto per non lasciarlo vuoto, abita una giovane donna con il marito tenente dell’Aeronautica. Ogni tanto un ragazzo va a trovare la sorella, ma più che andarla a trovare, ci va a studiare. La casa dove vive con il padre, un commercialista che a Padova conosce tutti, non è altrettanto silenziosa, e così il ragazzo, che fa ancora il liceo, ne approfitta. Se la sorella e il cognato non sono a casa, lui passa al piano terra dai Magello dove sa di trovare una copia delle chiavi pronte per lui. Con Margherita ci sono pochi scambi, anche se ormai si conoscono da tempo. Lei adesso ha quasi cinque anni più di lui, è fidanzata con Mario e si deve sposare, perciò i suoi pensieri sono altrove. Massimo, nella Padova divisa tra destra e sinistra, dura la prima come è dura la seconda, prova in fretta simpatia per Lotta Continua che nelle scuole fa propaganda e attira ragazzi che vogliono cambiare l’Italia, spesso in conflitto con i genitori di ben altra area politica. L’Italia è in subbuglio, nel 1976. Dal 1969 è iniziata la strategia della tensione, i neofascisti di Ordine Nuovo, tra Treviso e Padova, si mettono in moto per mettere bombe nelle banche e sui treni, e trent’anni di processi ingarbugliato le cose ma non le responsabilità. Anche il terrorismo rosso trova linfa vitale in questa stessa zona e, in mezzo, la sinistra extraparlamentare che ha già compiuto il salto di qualità dell’estremismo con l’uccisione di Calabresi nel 1972 a Milano. In questo caldo ideologico infernale che fa ribollire l’Italia, Massimo è un ragazzo che ha trovato amici che prendono a braccia aperte chi è pronto a fare qualcosa. C’è molto da fare anche a Padova, che è piccola e pettegola, ricca e operaia, arrogante e umile, capace di esprimere forti ed estreme contraddizioni. E bisogna tenere a bada i fascisti.

Sono circa le 17 del 20 gennaio e ormai è quasi buio. Una bicicletta entra nel cancello che rinchiude la stretta via privata e si ferma davanti alla villetta. Suona il campanello Magello. All’interno c’è solo Margherita, al telefono con una amica. Sta per sautarla e andare a farsi una doccia prima che la madre torni da Torino, e le dice in fretta: ti lascio, c’è uno alla porta. Margherita si era già tolta i pantaloni e la camicetta, e per andare ad aprire, scendendo i gradini, si butta addosso un accappatoio.

“Lui entra e le chiede le chiavi per andare, come di consueto, al terzo piano a studiare. Ma quel giorno non era uno qualsiasi. Aveva litigato con la ragazza, è stato rifiutato, era pieno di rabbia. Davanti a lui c’era una ragazza sola in casa e deve aver pensato a come era fatta sotto l’accappatoio”.

La mente comincia a fantasticare e infine a provarci. Una prova secca, che fa subito tirare indietro Margherita. Lui si carica di quella furia che hanno le menti annebbiate dai rifiuti e da altri rifiuti ancora più lontani nel tempo e ora la insidia, la vuole ad ogni costo e lei scappa, prima indietreggiando e poi correndo su per le scale perché altro non viene in mente quando ci si sente braccati. Arriva in camera sua e lì è in trappola: la casa è terminata. C’è il suo letto e sul letto verranno trovate le chiavi dell’appartamento del piano di sopra, ormai inservibili.

Lui ha un coltellino che porta sempre con sè, come fanno tanti ragazzi e come a quel tempo si faceva anche di più pensando a possibili aggressioni per la strada tra fazioni opposte. Scatta così, come scatta il coltellino serramanico, il bisogno urgente di colpire come se quella non fosse una ragazza, non fosse un corpo, ma fosse il diavolo dei suoi pensieri cattivi che lo tormentano e non trovano sbocco. Ti volevo, non mi hai voluto, mi piacevi, non ti sono piaciuto. Ti uccido.

Margherita si rifugia nell’unico luogo che è rimasto: il guardaroba-sgabuzzino, e lì si accoccola, ma non riesce a proteggersi da 56 colpi.

Lui la vede nel sangue, sente il mugulio lieve della sofferenza mortale e comincia a lavarla e sistemare l’accappatoio attorno al suo corpo, con cura, e attorno al capo le mette una fascia. Bella, composta. I criminologi lo chiamano undoing, cioè fingere che nulla sia accaduto in una sorta di affettuosa pietà.

Mezz’ora dopo, mamma Mimì ferma il taxi davanti a casa e vede subito che la porta d’entrata è aperta. Ha paura. Chiama la figlia e la figlia non risponde. Resta in strada, pensando ai ladri che forse sono ancora lì dentro, quando proprio in quel momento arriva il tenente dal lavoro, l’inquilino affittuario del terzo piano. Lo prega di entrare insieme con lei. In cucina non c’è nessuno e allora salgono le scale. Nella sua camera da letto tutto è in ordine e allora salgono ancora le scale fno alla camera di Margherita. La prima cosa che nota Mimì sono le chiavi sul letto, di fianco a una camicetta buttata lì. E’ il tenente a trovare il corpo, ormai morente, che spunta dallo sgabuzzino.

Quattro ore dopo, un ragazzo, Massimo Carlotto, si presenta alla caserma dei carabinieri di Prato della Valle in compagnia di amici e di un legale. Racconta una storia:

“Stavo andando a fare una ricognizione nell’area che è di spaccio di eroina per conto del movimento cui appartengo, Lotta Continua, quando ho sentito delle urla provenire dalla casa dove abita mia sorella. Sono andato a vedere e ho trovato Margherita Magello, che abita al piano terra della stessa villetta, in fin di vita. Ho raccolto le sue ultime parole: cosa mi hai fatto..io ti ho dato tutto.. Sono scappato per paura”. I suoi vestiti sono macchiati di sangue, ma lui ammette di averla toccata.

I carabinieri e il magistrato non credono alla sua versione e lo accusano di omicidio volontario (oggi si chiamerebbe femminicidio).

La sinistra si schiera con Carlotto, si muove anche lo storico difensore, l’avvocato Gian Domenico Pisapia. Carlotto è un militante, è certamente vittima di un complotto contro la sinistra. La teoria che lo difende però non trova sostegno forte nelle file della stessa sinistra italiana e per lui non si fanno manifestazioni. Non ci sono stati scontri con l’estrema destra, nè botte dei poliziotti: la perplessità, anche tra i giovani, è forte.

Undici processi e una fuga in Sud America così come aveva fatto il trevigiano neofascista Ventura, e una in Francia, protetto da Mitterand e uno stuolo di intellettuali. Non perchè volessero difendere un ragazzino padovano, benchè di Lotta Continua, ma perchè Carlotto, ormai nel gotha dei protetti solo per il fatto di appartenere a movimenti contrari allo Stato di allora, nel frattempo, in quei pochi anni di carcere, ha anche incominciato a scrivere romanzi, quelli che ti ficcano sorde coltellate raso terra e raso terra individuano il lato buio, il noir. Da scrittore diventa uomo di cultura e da uomo di cultura un intoccabile.

Massimo Carlotto si è sempre dichiarato innocente nonostante le condanne di primo e secondo grado. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli ha concesso la grazia nel 1993, non richiesta da lui (avrebbe dovuto ritenersi colpevole) ma dai suoi genitori.

Da uomo definitivamente libero ha detto: Margherita è una vittima che ha avuto giustizia, io no.

Massimo Carlotto vive tra Padova e Cagliari. E’ ritenuto il maggiore esponente italiano del noir.

Ps: la ricostruzione del delitto di Margherita Magello, 42 anni dopo, è stata fatta in base ai verbali , alle testimonianze e i ricordi dei familiari che preferiscono non apparire per discrezione e per la notorietà del personaggio in questione.

Ps2: pur essendo stata nell’area della sinistra extraparlamentare in quegli anni, e pur riconoscendo il clima di tensione che ha consentito di far regnare sovrana la confusione, ritengo l’omicidio di Margherita un femminicidio come tanti altri, con l’aggravante, semmai, che intellettuali, editori e autori, abbiano scelto di stendere un velo, non pietoso, ma di indifferenza su un caso giudiziario cui la parola fine è stata messa dalla grazia ma non dall’assassino.

Donna, io ti uccido

10 gennaio    Sozzago, provincia di Novara: una donna di 45 anni viene uccisa a botte dal convivente con precedenti per violenza.

20 gennaio    Dalmine, provincia di Bergamo: ex operaio bergamasco di 62 anni spara in testa in un hotel all’amante nigeriana di 37 anni che voleva lasciarlo.

24 gennaio    Cremona: cinese uccide con la mannaia la moglie e il figlioletto di tre anni

31 gennaio    Macerata, provincia di Ancona: nigeriano fa a pezzi una ragazza di 18 anni: probabile rifiuto sessuale

10 febbraio   Milano: tranviere milanese uccide a coltellate una ragazza di 18 anni che lo rifiuta sessualmente

10 marzo       Cisterna di Latina, provincia di Roma: carabiniere spara alla moglie con la pistola d’ordinanza, si barrica in casa , uccide le figlie e si suicida. Era separato da mesi. La donna lo aveva denunciato e cambiato la serratura di casa.

15 marzo      Giussano, provicia di Milano: ragazzo di 28 anni uccide madre e nonna nel sonno e si suicida. Lascia un biglietto: i soldi sono finiti.

17 marzo      Reggio Calabria: donna di 48 anni uccisa con quattro colpi di pistola in testa mentre è appartata in auto con un esponente delle cosche mafiose calabresi. Lui  viene solo ferito di striscio.

18 marzo      Canicattini Bagni, provincia di Siracusa: 27enne uccide a coltellate la compagna di 20 anni, madre di suo figlio di 8 mesi, e la getta in un pozzo artesiano. Litigavano da anni.

19 marzo     Terzigno, provincia di Napoli: 31enne separata da pochi mesi viene raggiunta davanti alla scuola della figlioletta e uccisa con la pistola. Il marito aveva lasciato un biglietto: mi faccio giustizia da solo. Si è suicidato.

Letti in sequenza, i femminicidi e le stragi compiuti in due mesi (18 gennaio-20 marzo) fanno aggrottare la fronte: adesso a chi tocca?

Letti in sequenza, i provvedimenti di prevenzione del crimine di genere, dal 2013 al 2017, sembrano invece acqua e sapone per lavare il sangue: la legge 119 del 2013 ha inasprito le pene (per uomini e donne) che compiono atti persecutori, il cosiddetto stalking che comprende atti di pedinamento, offese, minacce e appostamenti con qualunque mezzo, dal telefono all’auto, dalle scritte sui muri alle piccoli ritorsioni dagli insulti verbali a quelli scritti anonimi, dalla “triangolazione” (cioè l’utilizzo di terze persone) per diffamare, all’uso di facebook per spiare e creare stati ansiogeni. Nel 2017 al Senato è stata istituita la commissione parlamentare di indagine sul femminicidio e ogni forma di violenza. Dal 2017 la data dell’8 marzo è centrata contro la violenza sulle donne in tutto il mondo con scioperi generali.

Femminicidio: vocabolo entrato (a fatica) nella comunicazione dei mass media solo da pochi anni. E’ stato coniato nel 1990 negli Stati Uniti dalla docente americana Jane Caputi e dalla criminologa Diana Russell individuando una categoria criminologica vera e propria che fonda il movente dell’omicidio di genere nella cultura patriarcale del diritto maschile sulla donna.

In Italia i femminicidi sono in calo da diversi anni, così come lo sono gli omicidi (343 all’anno), ma aumenta la sproporzione: un omicidio ogni due è di genere, cioè si uccide la donna in quanto tale. Lo scorso anno sono stati 117.

L’Italia non è in testa a nessuna lista nera di assassinii di donne, neppure in Europa. Sono i giornali ad enfatizzare alcuni femminicidi, e in particolare quelli di ragazze molto giovani, di mamme, di donne uccise da extracomunitari o di stragi familiari. Quello di Reggio Calabria, che pure è evidentemente un femminicidio, l’ho trovato cercando i casi del 2018. La donna-amante e per di più di un esponente delle cosche è una notizia fastidiosa o una notizia locale. Così come l’omicidio della nigeriana in uno squallido hotel dove si incontrava da tempo (ma non era prostituta) con un bergamasco che non ammetteva di essere da lei lasciato. Il caso di Pamela Mastrogiacomo è stato addirittura trasformato in un serial horror a discapito persino della verità, e la componente razzziale ha avuto la meglio persino su quella sociale (lei tossicodipendente) con la conseguenza che abbiamo visto a Macerata. Chi ha armato Traini, vendicatore fasullo di Pamela? La sua mente predisposta alla difesa della razza bianca, la potente manipolazione politica su un soggetto predisposto a delinquere e l’altrettanto potente suggestione generata da dialoghi, immagini e fantasie di stampa, televisione e bar di paese.

C’è una possibilità – e se lo chiedono in molti da diversi anni – che esista l’effetto manipolatorio su personalità fragili e predisposte ad agire il vissuto del male, cioè lo sperimentare di persona il fare del male a qualcuno?

No. La risposta è sempre stata no. E’ stata no per i videogiochi violenti, è stata no per gli americani che uccidono nelle scuole, è stata no persino nei suicidi. Con una precisazione: circa 15 anni fa ci si era accorti che ogni volta che si scriveva di una persona che si buttava da un ponte, alcuni giorni dopo se ne buttava un’altra. Peggio è stata la sequenza di suicidi per asfissia in auto; una vera ecatombe, tanto da fare prendere la decisione ai giornali di non pubblicare più alcun suicidio a meno che non fosse collegato a una vicenda di rilievo. Nonostante la stampa non ne parli, i suicidi sotto i treni in superficie e sottoterra nelle città, continuano con picchi nei mesi che sono stati ampiamenti studiati: vicino alle vacanze di Natale (prima o dopo), vicino a quelle estive (prima, durante o dopo) e l’inizio dell’autunno e della primavera (mesi in particolare che incidono sui disturbi di depressioni bipolari e ciclotimici, quelle a più alto rischio di suicidio).

I suicidi, nonostante non se ne abbia neppure notizia se non si è direttamente coinvolti, sono un numero spaventoso: 4000 all’anno. A niente è servita la prevenzione “fisica” ad esempio sul Duomo di Milano o sui ponti noti per buttarsi di sotto da grandi altezze (il ponte di Paderno o quello di Spoleto) con reti e barriere di impedimento. Chi non può più suicidarsi lanciandosi nel vuoto da un punto alto che gli assicura la morte istantanea, ripiega sull’ultimo piano di casa, il metrò, i treni, i farmaci, i coltelli. Se la decisione è quella di morire, si muore. Perciò sì, quando si è cessato di scrivere dettagliatamente come si era sucidato qualcuno col gas di casa o il gas di scarico in auto questi tipi di suicidi sono diminuiti e hanno almeno (per le case) evitato qualche morte di innocente. Ma chi aveva deciso di morire l’ha fatto lo stesso. Cosa scattava nella mente allora, leggendo un articolo o sentendo una notizia in radio e tivù?. L’idea del come, non del perché. Chi  cerca di morire cerca idee su come morire senza soffrire. Basta mettere in google queste parole ed escono automaticamente, segno che la ricerca è numerosa anche se non signfica automaticamente che tutti coloro che cercano poi si siano davvero uccisi. Per uccidersi occorrono diversi fattori, primi fra tutti quelli chimici che regolano l’umore. Le motivazioni che a noi sembrano a volte riduttive, puerili e incomprensibili, nel cervello di una persona in disequilibrio psichico-emotivo assumono sembianze totalmente diverse e ogni rifiuto o fallimento si ingigantisce. E’ sbagliato parlare genericamente di depressione, ma sono occorsi anni anche alla psichiatria per capirlo. A noi ne seviranno molti di più finché i titoli della stampa saranno sempre: era depresso, ha ucciso la moglie. Oppure, peggio ancora: era geloso, ha ucciso la moglie. La depressione in sè non fa uccidere (anzi: è il ripiegamento su se stessi per poi risalire), così come il sentimento della gelosia, benché faccia soffrire chi lo prova, e anche molto, non è collegato al desiderio di soppressione fisica ma piuttosto mentale dell’altro. Le persone patologicamente gelose, sono persone che hanno già manifestato precedentemente comportamenti passati inosservati e non per forza violenti nel termine che conosciamo (per esempio sono ossessive, pignole, controllanti o/e incapaci di autocontrollo), uno dei quali si esprime con quella che definiamo gelosia. Tutti siamo gelosi, tutti non vogliamo perdere qualcosa cui teniamo molto, ma pochissimi di noi uccidono o perdurano nel fare del male all’altro o mettono on atto meccanismi disfunzionali per ottenere ciò che vorrebbero. Quei pochissimi che lo fanno (ma tanti nel resto del mondo e in particolare in America Latina, in Asia e in Spagna) sono una sorta di borderline (non nel senso psichiatrico ma di personalità limite) che già contiene la possibilità di non accettare la perdita. Si definiscono disturbi dell’attaccamento. E sono di entrambi i sessi, ma nell’uomo vengono elaborati anche secondo la cultura di massa.

Sono tutti casi psichiatrici? La maggior parte dei femminicidi viene commessa da personalità paranoiche, dipendenti e narcisiste. Nei giovani prevale invece il disturbo borderline, la depressione bipolare e l’uso delle droghe. Queste ultimi sono in netto aumento e non a caso spiccano negli omicidi e persino nelle stragi familiari ragazzi tra i 24 e i 35 anni.

Che siano aumentate le forme depressive nei bambini e negli adolescenti è fenomeno ampiamente studiato e confermato dagli neuropsichiatri in tutto il mondo. Che siano più difficili da riconoscere e si manifestino in modo differente rispetto a quello che più o meno conosciamo, anche. Il bullismo, ad esempio, è considerata una espressione di disagio non sociale ma emotiva che a volte combacia anche con quello ambientale e a volte no. Il ritorno della droga che cerca in chi la assume di combattere la depressione (l’eroina) lo spiega ancora di più. Ma anche le droghe casalinghe che si sniffano (trielina, gas  butano) considerate innocue, vengono assunte per trovare uno sbocco al disagio esistenziale con la conseguenza di portare soggetti predisposti (appunto coloro che cercano soluzioni al disagio) a forme di dissociazione e psicosi. Senza parlare della cocaina e di tutte le mentafetamine di cui si conosce l’enorme consumo ma non si indaga mai su chi sono gli assuntori e in quale quantità la assumono. Tutte le droghe sintetiche stimolanti agiscono sulle cellule nervose e modificano lentamente i comportamenti. Noi sappiamo che chi ha ucciso ha usato droghe solo se era un tossicodipendente, ma non sappiamo mai se chi ha ucciso faceva uso saltuario di droghe e lo teneva ben nascosto.

Alcn femminicidi fanno riflettere più di altri: può uno che aveva amanti essere geloso della moglie? Sembra un controsenso. Eppure il carabiniere di Cisterna di Latina le amanti le aveva. E, anzi, è stato proprio questo uno dei motivi scatenanti della richiesta di separazione. E dovremmo smettere di pensare che lui aveva amanti perché con la moglie non aveva un rapporto soddisfacente. Chi ha amanti (o va a prostitute) compie scelte precise, cercando più o meno lo stsso effetto della droga che schiaccia il problema e lo rende innocuo. Ma il problema resta e, anzi, si ingigantisce.

Perciò io non credo che nei femminicidi si possa parlare di emulazione nonstante ne vediamo dolorosamente uno dietro l’altro. A leggeri bene sono tutti casi diversi e anche la reazione delle donne nel rapporto è stata diversa. Chi ha lasciato e chi no, chi ha avuto subito un nuovo parter e chi no, chi litigava da anni e chi taceva da anni.

Chi vuole uccidere, uccide. Basta una esplosione interiore al percepire la fine, una rabbia covata, un senso del diritto che impedisce il dialogo, un fragilissimo “io” che sta andando in mille pezzi e non ha idea di come ricomporsi se non quella appresa negli ambienti che ha frequentato (famiglia, scuola, società, lavoro e perchè no, social pieni di odio come lo è Facebook o le innumerevoli e dettagliatissime descrizioni di come fare soffrire il partner che si trovano in internet).

Io non credo alla prevenzione, nel rapporto di coppia, come se fosse il mettere la cintura in auto per non morire in caso di incidente. Credo, fermamente, che le prime a rendersi conto dei segnali debbano sempre essere le donne e che chi potenzialmente è capace di uccidere dà segnali di vario tipo, tutti che fanno provare disagio (a volte rabbia) alla donna.  Credo femamente che gli organi di polizia che raccolgono denunce debbano essere preparati a stilare una serie di domande intelligenti, e non queste: ha ricevuto minacce di morte? Manda messaggi insistenti? Si fa trovare sottocasa o al lavoro? Ha cambiato la serratura?  Credo fermamente che tutti i centri anti-violenza debbano smettere di studiare e ficcarsi fisicamente nelle situazioni difficili facendo da cuscinetto con la fermezza di chi sa esattamente capire cosa potrebbe succedere in quella casa o appena fuori da quella. Credo fermamente che siano in mano a gente totalmente incompetente che ha a che fare con donne piene zeppe di sensi di colpa tipicamente femminili, riparatrici come lo sono le donne, comprensive come sono le donne, e a volte, fatemi correre il termine, stupide come lo sono le donne romantiche, sfidanti il pericolo, o quelle dipendenti senza una vera ragione economica di esserlo.

Le donne all’ultimo appuntamento ci vanno, e se non ci vanno e hanno cambiato la serratura di casa o hanno mille protezioni di avvocati e centri per donne maltrattate, vengono inseguite e braccate lo stesso come Antonietta a Cisterna di Latina.

Immacolata, uccisa solo ieri, come altre donne che non amano più e hanno deciso di tagliare per sempre, ha fatto errori che ha pagato con la vita. Il primo errore è sempre quello di non comprendere fino in fondo il proprio compagno, soprattutto coi figli di mezzo (che non sono amati da questi assassini, si badi bene, ma vissuti come ulteriore perdita di potere maschile). Tutte le zone d’ombra di una persona vengono sempre a galla e fortemente solo nei rapporti affettivi. Non per niente il femminicidio è un delitto passionale, cioè della sfera della passionalità (da non confondere con l’amore: sono pulsioni affettive interne) e non per niente si è giunti a modificargli il nome. Fare entrare nella cultura mondiale il concetto di benevolenza ( volere bene) è una impresa titanica. I narcisisti sono egocentrati e l’egocentrismo interpreta i segnali esterni in senso introverso: lei osa lasciarmi, lei osa sminuirmi, lei osa impormi scelte, lei osa…ecc. ecc. Ma al momento delle sepearazioni accade qualcosa di molto più grave per uomo e donna: il dolore del fallimento che è ben più bruciante, all’inizio, di quello della perdita. E’ qui che interviene il soccorso del narcisismo positivo che noi chiamiamo autostima, dove il suo improvviso crollo viene soppiantato naturalmente da un lento e doloroso percorso di risalita. Quando questo meccanismo si inceppa malamentee l’ossessione ha il sopravvento, e la perdita viene vissuta in modo tragico, chedere aiuto agli psicologi serve, ma non basta. I veri alleati restano i farmaci che regolano l’umore nei momenti di squilibrio pericoloso per sè e per gli altri.

Perciò io non credo all’emulazione nei casi di femminicidio. Credo che l’idea di come uccidere può avere il suo peso (così come nei suicidi) ma la forza di togliere una vita richiede un basso concetto morale della vita altrui (anche prima) e la certezza che la propria morte conseguente (il sucidio) o l’arresto, toglieranno definitivamente il dolore. In effetti è così: in carcere, gli assassini si sentono contenuti e uguali ad altri che hanno comesso crimini. Lasciando un uomo che ha ucciso la sua compagna in giro, pardossalemente, gli procureremmo una ancor più grave sofferenza  psicologica. Uccidendo ha sì risolto il dolore lacerate della frustrazione abbandonica, ha sì compiuto un gesto che gli ha ridato autostima, ha sì ristabilito il potere dell’uomo sulla donna, ma sbollito il senso di grandiosità, non saprà più che farsene. Il carcere che contiene con autorità tutti gli impulsi, è spesso vissuto da questi uomini come l’ancora di salvezza dal dolore potente che provavano prima. Ma nei fatti non cambia nulla dentro di loro. Ho visto assassini usciti dal carcere a pena scontata, dire: tanti anni fa ho compiuto un reato. Nemmeno dopo, la donna è una donna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Avetrana, perché è così difficile capire

Quaranta persone hanno giudicato Sabrina Misseri e sua madre Cosima colpevoli di omicidio con tutte le aggravanti che prevedono l’ergastolo.

Non mi sono mai occupata del delitto di Avetrana, nemmeno leggendo i giornali. All’epoca ero in Argentina e al rientro ho seguito altri delitti. C’è però un motivo specifico per il quale ho tralasciato Avetrana: non lo capivo. Non capivo l’ambiente in cui è maturato (conosco poco la Puglia), non capivo il dialetto nè i modi di dire e, soprattutto, non volevo perdere tempo su qualcosa di cui tutti parlavano e tutti (o tanti) ci ricamavano su, con morbosità, colpi di scena, inquadrature studiate, esperti che spuntavano da ogni dove. Quel tipo di propaganda cosiddetta mediatica che impedisce quasi sempre di colpire subito nel segno e allunga i tempi all’infinito. Chi ha detto cosa? Chi  ha fatto cosa? Quando l’ha detto? Perché lo ha detto? Nel delitto Scazzi sono entrati con una prepotenza solo italiana (e italiana del sud) elementi disturbanti che se ben spiegano perché è stato tutto confusionario, consentono anche di rimescolare le carte, benché le carte siano processuali.

A distanza di sette anni perciò, ho fatto la fatica di capire, come se quel delitto fosse avvenuto ieri ripartendo addirittura dal giorno della scomparsa di Sarah Scazzi, così come è stata data dagli organi di stampa che hanno avuto la notizia dai carabinieri. Partire dall’inizio ha un vantaggio: il caso appare nuovo e le prime parole (che poi potranno venire dimenticate o modificate o addirittura utilizzate) dei soggetti coinvolti, hanno più valore. E non tanto perché si mente (si può mentire dal primo istante di ogni delitto, persino se colti in flagranza) o si dice la verità, quanto perché è successo qualcosa di emotivamente coinvolgente per i familiari e in questo caso lo stesso paese.  Quando è scomparsa la ragazza di 15 anni, chi è del mestiere ha pensato ad un allontanamento volontario tipico dell’età e conseguenza di conflitti familiari. Ma in quelle poche vie di Avetrana e in quei  pochi minuti di percorso tra una casa e l’altra, la teoria vacillava e ha vacillato ancora di più quando la madre di Sarah, Concetta, ha detto: l’hanno portata via. E’ bene ricordare che è stata lei la prima a dirlo ai carabinieri. Oggi penso: portare via una ragazza in Italia non è affatto comune, mentre lo è in Sudamerica. Tutt’al più da noi possiamo dire, come poi è stato immaginato, che qualche uomo o ragazzo più grande l’abbia convinta a fuggire con lui, una fuitina insomma. Che non fosse allontanamento volontario o fuitina lo abbiamo purtroppo saputo quando Michele Misseri ha detto l’ho uccisa io, e ne ha fatto trovare il corpo. E questa è la realtà inconfutabile. Misseri racconta di avere ucciso lui la nipote ai carabinieri (dopo aver fatto ritrovare il cellulare) e viene interrogato diverse ore. Io mi soffermo su questo fatto: diverse ore significa che Misseri doveva spiegare esattamente tutto, sia per essere credibile, sia perché questo richiedono le confessioni: dettagli, motivi, dinamiche, tempi, luoghi. La confessione serve, ma non è mai sufficiente: attorno ad essa gli inquirenti devono costruire tutte le prove che il reo confesso può non ruscire a portare. Esempio: l’anatomopatologo riscontra quale causa della morte uno strangolamento con un laccio di 2 centimetri e mezzo di altezza (come sarà in questo caso) con incrocio sulla nuca non perché se lo immagina, ma perché trova riscontri sul collo, misura i segni e la pressione esercitata dalle mani, la lunghezza dell’oggetto usato e persino la sua composizione, come nel caso dello strozzamento: particelle di peli o di colore, di tessuto o di materiale organico, naturale o artificiale. Un bravo anatomopatologo e tutto lo staff della medicina legale, da un segno sul corpo di un cadavere possono rilevare una miriade di informazioni. Il caso Yara ne è stato un esempio positivo, quello di Pamela Mastropietro uno negativo.  Il caso Yara è finito nelle mani di una grande esperta che non fa solo le autopsie, ma ricostruisce il luogo anche dopo mesi e anni il ritrovamento dei cadaveri e anche in condizioni pessime. Il caso Pamela è passato nelle mani di due diversi anatomopatologi (con una sola autopsia) e diversi investigatori. Che il corpo di Pamela fosse stato tagliato e lavato con candeggina, per i moderni strumenti e occhi esperti non significa molto perché quello che si cerca è contenuto in poche, fondamentali informazioni scientifiche che devono essere lette correttamente. Esempio: una lettura sbagliata di una banale ecografia può condurre a una diagnosi sbagliata. Ci siamo passati in tanti. Perciò la scienza è scienza relativa perché è l’uomo che la osserva e la decodifica.  Prima dell’autopsia di Sarah c’è stata la confessione a corpo non ancora ritrovato. Michele Misseri è stato creduto e messo in carcere. Però le prove del suo racconto andavano comunque trovate. Le prime sono state appunto quelle dell’autopsia condotta su un corpo macerato in acqua per oltre un mese, e l’acqua rappresenta in assoluto l’elemento che peggio conserva i corpi. Luigi Strada, direttore dell’Istituto di Medicina Legale  dell’Università di Bari aveva dicharato: la cicatrizzazione (sul collo, ndr) non permette di capire se Sarah si sia difesa con le mani. Lo strangolamento è compatibile con la forza di una sola persona.

Era il 13 ottobre 2010, il giorno prima del funerale della ragazza.

La prima domanda che ci si pone, a distanza di sette anni e non essendosi mai occupati di questo caso, è: la confessione è stata presa per vera, divulgata e provata da almeno tre elementi; il ritrovamento del corpo (indicato dalla stessa persona che ha confessato), lo strangolamento (indicato dalla stessa persona che ha confessato) e il luogo: la casa dei Misseri, compatibile con la scomparsa della ragazza in poche centinaia di metri nel tragitto casa sua-casa degli zii.

Però, come ha detto Cosima ieri sera nell’intervista alla Leosini,  “all’ergastolo siamo finite io e Sabrina”.

Michele Misseri, subito (nelle video interviste che ho rivisto e nei pezzi che ho letto) appare quello che è sempre stato anche sei anni dopo, cioè prima di entrare in carcere per scontare definitivamente gli otto anni comminati per l’occultamento del cadavere. Cosa significa apparire all’esterno la stessa persona? Mi sono dedicata per molti anni ad ascoltare e osservare con grande attenzione e spesso grande partecipazione emotiva, anche a distanza ravvicinata, gli autori di delitto, di qualunque tipo (non necessariamene di persona), sia che si ritenevano colpevoli sia che si ritenevano innocenti. In generale, io non credo a nessuno. Ogni caso che seguo o ho seguito, ha attinto a tutte le mie memorie di vita con l’aggiunta dell’esperienza in questo settore particolare. La psicologia non è una scienza perfetta. E non lo è perché è l’essere umano ad essere imperfetto. Perciò si può intuire e dedurre, ma mai essere certi della verità nei delitti se dovessimo solo capirli attraverso i comportamenti umani benchè i comportamenti umani di alcuni contesti sociali siano spesso prevedibili. Il caso di Avestrana presenta appunto questa sorta di incertezza che supera diversi casi controversi della storia del crimine perché bisogna andare per esclusione (non può essere avvenuto al di fuori di quella casa, nè per mano di altre persone) ma nello stesso tempo per inclusione. Cosa vuol dire? Che i tre familiari appaiono tutti nella stessa casa alla stessa ora. Se l’innocenza è impossibile, resta la colpevolezza.

Voglio dimostrare come la logica faccia facilmente acqua:  come faceva a sapere Misseri che Sabrina aveva ucciso con una cintura quando ritratta e accusa lei? Sabrina non gliel’ha certo detto, negando l’omcidio ancora oggi. Misseri era presente? No, lui era in garage. Lo confermano tutti e tre. Dunque come faceva a sapere che era stata usata una cintura?

Nella intervista alla Leosini di domenica sera, la signora Cosima che a tutti è sempre apparsa una megera, chiusa, rancorosa e vendicatrice, che sottomette il marito e forse manipola la figlie, che non ha avuto una parte di eredità (in effetti non le spettava) ma nemmeno una parola della sorella su quei soldi, che approfitta della rabbia della figlia per vendicarsi a sua volta uccidendo la nipote (con proiezioni, eccetera eccetera) ha detto: mi volete fare capire quale cintura avrei usato? Di quale pantalone? In che stanza l’avrei uccisa? E come avrei fatto in soli venti minuti a litigare, accendere l’auto, inseguirla, frenare, scendere, afferrarla, riportarla in casa, litigare di nuovo , ucciderla e poi…e qui lo aggiungo io…scendere in garage dal marito che niente ha visto e niente ha sentito del trambusto nel silenzio d’agosto delle 14 (perchè cercava di fare partire il trattore) e digli: Michè, hai tempo un attimo? Qui sopra abbiamo fatto un guaio, nascondi sto’ cadavere sennò finiamo in  galera.

Signori giudici di tre gradi e mezza Italia: io questa scena cerco di immaginarmela in ogni modo, ma non riesco a vederla. Il raptus omicida può essere dimenticato, (anzi spesso lo è) ma non lo è il prima e il dopo. Anna Maria Franzoni non ha scordato di avere ucciso Samuele: ha saltato a piè pari (con consapevolezza) i colpi che gli ha dato in testa. Il resto l’ha raccontato con estrema linearità perché tale era e stava in piedi anche senza i colpi in testa. In questo caso, il fatto che Sabrina si metta immediatamente a depistare con razionalità (senza fare un errore) e la madre chieda aiuto a uno che nulla sa di quanto è accaduto di sopra, per quanto esista l’obbedienza cieca, un passaggio è stato saltato.

Michele Misseri, come dicevo, ha una caratteristica di fondo, scollegata dai rapporti familiari e dalla vicenda stessa: parla, parla moltissimo. Spiega, spiega moltissimo. Vuole essere creduto, sempre, nelle bugie e nella verità. Piange lacrime copiose e in contemporanea descrive orrore di ammazzamento come se fosse in un film. Distaccato ed emotivo contemporaneamente. Ma cosa fa piangere Michele? E cosa fa piangere Sabrina? E cosa ha fatto, per una frazione di secondo, commuovere Cosima la dura parlando con Franca Leosini? E poi: perché alcuni giornalisti ritengono le due donne innocenti e altri colpevoli pur essendo il nostro un mestiere che non ammette schieramenti o giudizi ma solo il tentativo di cercare e fare emergere la verità per quanto possa non piacere?

Le motivazioni sono diverse.

Sabrina soffre di umiliazione, cioè di orgoglio ferito (ferita antichissima che si è riaperta con lo sfrontato atteggiamento della cugina) e questo la renderebbe capace di uccidere non per gelosia ma per narcisismo (si chiama ferita narcisistica).

Cosima soffre di controllo, ferita che si è riaperta quando l’ha perso (la figlia, la sorella, la nipote) e questo la renderebbe capace di uccidere (si chiama ferita del controllo).

Michele soffre di immaturità psichica con numerosi tratti borderline e può sia compiere un delitto che accusare altre persone per vendicarsi e usare il vittimismo per restare nello stesso circolo vizioso.

Come faccio a fare diagnosi senza essere psichiatra?

Queste non sono diagnosi psichiatriche, sono tratti di personalità che tutti abbiamo e che possono, come nelle grandi passioni, compresi i delitti passionali come questo, restare silenti e compensate finchè succede qualcosa di veramente grande, stressante e pericoloso per la propria corazza difensiva.

Solo Michele Misseri in realtà presenta un disturbo evidente: la menzogna fine a se stessa. Ma siccome la menzogna non è mai fine a stessa (dire ho violentato Sarah da morta era inutile oltre che verificabile tanto quanto da viva, e in più altro che odio del paese ti tiri addosso con una simile rivelazione!)  Michele mente, secondo i giudici, perchè entra ed esce da una situazione troppo complessa da gestire. Cioè non sa assumersi la responsabilità di se stesso. Immaturo. Gli immaturi (che a quell’età sono patologici) possono dire una cosa e l’incontrario della stessa a distanza di poco tempo e dare anche spiegazioni, ma nessuna cosa che dicono nega la precedente. Ti portano in sostanza in un percorso di confusione cognitiva, apparentemente la stessa che hanno loro, ma meno apparentemente seguendo un percorso della propria mente: la difesa. Michele Misseri perciò quando si accusa e quando accusa compie difese primitive.

La sua immaturità e ambiguità non gli impedisce comunque di fare una azione altamente immorale: predere il corpo della nipotina, trasportarlo, scegliere il luogo, coinvolgere altre persone, denundarla (con un ragionamento pensato) e scaraventarla in un pozzo. Mica tanto facile se non sei tu il colpevole, ma la moglie che non sopporti più e la figlia di cui ti sei interessato quanto basta. Se però ne va anche del tuo, di onore, allora sì il cerchio si chiude in una patologia familiare. Co la dovuta precisazione che l’onore ferito è un sentimento che non ribolle in soli dieci o quindici minuti.

Cosa salta fuori da tutto questo? Una famiglia senza confini identitari o un uomo senza confini identitari precisi.

Sabrina ha moti di stizza e irritazione (contenuta) quando Franca Leosini vuole (anche lei, figura materna) dirle quale è la verità. Ci sono tanti modi per entrare in empatia con le persone, ma ce n’è uno solo che conquista anche gli assassini (non psicopatici): l’empatia vera.

Franca Leosini non ha conquistato l’empatia di Sabrina nè quella di Cosima: entrambe si aspettavano di essere rivalutate come persone e, benchè lei in parte le abbia accontentate, ha mancato di centrare il punto doloroso che non sfugge però a chi è veramente empatico col dolore profondo: il non-detto, nemmeno a se stessi.

Sabrina ritiene una profonda ingiustizia essere in carcere a scontare una pena così enorme. Cosima, cercando di nascondere la sofferenza, la porta su un piano razionale: spiegatemi perchè siamo qui. O perchè sono qui io.

Michele, che non è stato intervistato in carcere, direbbe ancora una volta piangendo che vorrebbe scontare l’ergastolo, ma è pur vero che se avesse voluto scontarlo davvero avrebbe chiesto a sua moglie tutti i dettagli di un omicidio al quale non aveva assisitito e sarebbe forse stato creduto. Quando fa ritrovare il cellulare e subito chiama Sabrina, ha già deciso di mandarla in cella. Credere alla favola del senso di colpa, significa non capire cos’è il senso di colpa.  Il senso di colpa ripara, non porta ad accusare gli altri, benchè siano colpevoli. Il senso di colpa è un meccanismo di difesa umano per chi ha coscienza e morale e serve appunto a rendersi conto del male commesso. Non certo a farne dell’altro a qualcun altro. Il senso di colpa non ha niente a che vedere con il senso di giustizia: ci può essere l’uno e non l’altro. Se manca il senso di colpa e ugualmente lo si esterna con altarini e pianti e parole, si mente per salvare la propria immagine.

Io non so chi ha ucciso Sarah, so che solo quelle tre persone possono averlo fatto. Ma come nel caso di Meredith,  non si possono condannare persone (come è stato per la Knox e Sollecito) solo perchè tutto fa ritenere che siano stati presenti in quella casa (altri non c’erano) e perché avessero entrambi un movente, benchè diverso, per uccidere. Raffaele e Amanda, secondo la ricostruzione non processuale (sono stati assolti) hanno creato una coppia patologica nella quale Amanda aveva necessità di rivincita e Raffaele anche. Amanda ha avuto sotto le mani (cioè l’occasione irripetibile) di avere rivincita e Raffaele ha accettato il soggetto proposto (Meredith) . Ciò che li ha accomunati è stato il bisogno di rivincita personale (ognuno la sua).

Cosima e Sabrina sono madre e figlia. Entrambe hanno il desiderio di rivincita (dalla vita, dalla sorella, dalla cugina, dai bulli, da Ivano, ecc) e Sarah poteva essere il bersaglio debole (così come le madri uccidono i figli piccoli) perfetto, l’occasione perfetta e irripetibile, ma Cosima e Sabrina non hanno un rapporto patologico tra di loro nè sono una coppia nella vita. Perciò una sola delle due può aver deciso un omicidio: una lezione eccessiva apparterebbe alla categoria degli omicidi colposi o pretrintenzionali (lo stragolamento potente non può esserlo: è proprio un desiderio di soffocare fino a vedere la persona morire).
Se la decisione di punizione è stata di Cosima, come dicono le carte processuali  (lei sarebbe andata ad acciuffare la ragazzina che poteva svergognare i Misseri con una rivelazione ) lei è corresponsabile dell’omicidio e Sabrina quella che lo pensa, lo decide e lo attua per prima sapendo bene quello che sta facendo. Se è Sabrina la rabbiosa, non sta più in piedi il fatto che sia la madre a correre dietro a Sarah con l’impeto e la rabbia di una che è ferita personalmente. Il rapporto tra madre e figlia non è affatto chiaro e nemmeno Valentina, la sorella maggiore, ce lo spiega. Valentina appare, piuttosto, come l’unica ad avere sensi di colpa per non aver capito niente della sua famiglia e paga ricoprendo di affetto e attenzioni madre e figlia. Non il padre che evidentemente ha messo in luce la fragilità dell’impalcatura familiare.

Se invece Michele Misseri, che sta sempre ai margini, entra in questa vicenda, non può esserci entrato solo come manovale o gli sarebbero occorsi molti minuti in più per capire cosa era successo e perché difendere immediatamente moglie e figlia con un atto che lascerebbe freddo solo un mafioso abituato a mettere corpi anche nel cemento.

Tirare le conclusioni non è facile. Le testimonianze sono tutte smontabili, i tempi anche. Restano in piedi, di questa storia, due cose: Sarah è morta in quella casa e uno dei tre o uno, o due o tre, l’hanno uccisa. O uno, o due o tre.

Nel dubbio, il nostro ordinamento giuridico avrebbe dovuto assolvere per insufficienza di prove Sabrina e Cosima e condannare per il solo occutamento di cadavere Michele. Non sarebbe stata giustizia, ma avrebbe rispettato il nostro codice penale che salvaguardia il possibile errore giudiziario.

Nella lunghissima intervista di Franca Leosini, non mi sono aspettata una confessione da parte di Sabrina o Cosima, nemmeno velata:  se avessero ucciso non lo direbbero mai. E la loro attuale linea, difensiva o meno, non presenta nessuna contraddizione nemmeno in un discorso lungo e articolato e a braccio. Perciò non può incrinarsi in nessun modo.

Michele Misseri, a differenza loro, ancora oscilla tra la voglia di punire e quella di essere punito. Quando questa sua modalità difensiva infantile sarà scomparsa, tutte le maschere dei personaggi di Avetrana andranno in frantumi. Se mai dovesse accadere, sarà comunque tardi.

Marzo 1978, la paura di Milano

TRA COVO BR E DUE RAGAZZI ANTIFASCISTI UCCISI

Il rapimento di Aldo Moro dopo la prima ora di sgomento e le altre tre di protesta spontanea di tutta l’Italia, diventa subito, lontano dal popolo e dalle sue orecchie, una vicenda spinosa. Che le Brigate Rosse non si sarebbero accontentate di qualche uomo di potere, da quel 1970 di un bar di Reggio Emilia dove fecero un patto di rovesciamento dello Stato di allora, era immaginabile. Non ripercorrerò inutilmente le vicende di quegli anni e neppure il sequestro dello statista terminato in una prevista tragedia dopo 55 giorni. Ripercorro invece, da milanese, e oggi da giornalista, quanto accadde due giorni dopo: la brutta fine di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, due studenti di 18 anni e mezzo.

Il loro assassinio, apparentemente, non è stato diverso da quello di Claudio Varalli e di Giannino Zibecchi, di Saverio Saltarelli oppure di Roberto Franceschi. Erano tutti ragazzi e tutti impegnati a Milano nell’estrema sinistra divisa in tante sigle diverse ma unita dai centri di aggregazione nei quartieri. Erano 50 allora, piccole o grandi occupazioni di fabbriche dismesse. La più imponente, nel 1975, fu quella dell’ex farmaceutica di via Leoncavallo, poco distante da Loreto, nel quartiere Casoretto. Il Casoretto era stata una frazione del comune di Lambrate prima che questo si unisse alla città, ed era composto da gente di bassa estrazione sociale in parte, e in parte di piccola borghesia. Le sue case lo raccontano ancora oggi. Qui erano cresciuti Fausto e Iaio e nella parrocchia di Santa Maria andavano a giocare all’oratorio. Il sacrestano se lo ricorda bene il parroco che accorse ad accarezzare la testa di Iaio; a mormorare parole sconvolte alle 8 di quel 18 marzo 1978. Accadde tutto davanti alla porta di ferro sberciato, la stessa che c’è oggi, che rinchiude il cortile della grande canonica. A quel tempo, a piano terra dell’edificio attiguo alla chiesa, c’era una scuola americana, a quell’ora chiusa. Sulla sinistra invece c’era una palazzina, la prima di via Mancinelli, dove allora alloggiavano i sacerdoti e persone con disabilità mentale. Oggi li vedi in cortile a fumare, nascosti dal muro di cinta che rende la via Mancinelli allora come oggi luogo perfetto per un agguato mortale. Di fronte alla canonica (dove ora c’è un centro di ascolto e varie attività per l’associazione dell’autismo), c’è il lungo muro (lungo tutta la strada, cioè quasi 400 metri) del deposito dei tram. Su questo muro, proprio in faccia a quel portone sberciato, i ragazzi del liceo atistico di Fausto Tinelli avevano fatto un grande murales e nel 2017 lo hanno rifatto daccapo sbiadendo il colore rosso dei garofani. Domenica saranno 40 anni da quella sera.

Fausto e Iaio, racconta la cronaca minuziosa di diverse indagini e tante testimonianze, si sono trovati in via Leoncavallo poco dopo le 19 e 30. Non al Centro, che si stava preparando per la serata di festa con musica (era sabato), ma di fronte, al bar dei panini a prezzi, allora, accessibili anche agli studenti. Da lì hanno percorso la via Lambrate che scende in linea retta verso la via Casoretto. A coloro i quali quel percorso è parso strano, io dico no, non lo era: quel locale era (oggi non c’è più, ma esiste ancora altrove) proprio di fronte alla via Lambrate: bastava attraversare la via Leoncavallo. I ragazzi erano attesi a casa di Fausto per una cena veloce, in via Monte Nevoso, un chilometro e mezzo di strada a piedi verso la periferia e al confine con la ferrovia. Quel 18 marzo il nome della via diceva qualcosa solo a chi c’è andato per scrivere sul muro di casa di Fausto, una bella casetta di quattro piani degli anni ’40: il Casoretto si chiude col piombo. Il riferimento era al collettivo Casoretto, anzi la banda, come venne soprannominata dalla sinistra più intellettuale della Statale, che i ragazzi frequentavano, così come frequentavano anche Radio Popolare allora in scalcinati locali di una altrettanta scalcinata via Pasteur. Via Monte Nevoso diventerà molto, molto famosa, solo il primo ottobre di quello stesso anno, quando gli uomini del generale Dalla Chiesa fecero irruzione nel covo milanese delle Brigate Rosse che conteneva le carte segrete del rapimento Moro.

I ragazzi, quella sera, fecero un percorso corretto fino all’edicola dei giornali che stava chiudendo. Li ricorda bene il titolare, perché li vide e sentì commentare le notizie del recentissimo rapimento Moro. Dall’edicola di via Casoretto i due sarebbero dovuti proseguire per tutta la via fino in fondo per poi svoltare a destra e imboccare la corta via Monte Nevoso che costeggia il muro della ferrovia. Invece non andò così, e questo è un dei primi misteri di un duplice omicidio che ha avuto sì sospettati, ma mai colpevoli da processare e condannare. La ricostruzione del luogo della sparatoria perciò si basa solo su deduzioni: dall’edicola occorrono due minuti per raggiungere il punto esatto (di fronte al portone della canonica) dove Fausto e Iaio sono caduti a terra con otto colpi addosso, cinque a uno e tre all’altro. Se i ragazzi dovevano andare a casa di Fausto e perciò restare su via Casoretto, cosa li ha portati fin lì? Avrebbero visto qualcosa che li ha richiamati. Cosa? Hanno sicuramente visto tre ragazzi, che erano già lì, tutti e tre abbigliati alla moda che allora si diceva alla sanbabilina o alla destra romana: spolverino chiaro o giubbotto. Come erano effettivamente vestiti li descrivono i testimoni che li hanno visti prima uccidere e poi scappare. Uno di loro però lascia a terra un cappellino blu intriso del sangue di uno dei ragazzi. Quel cappellino così prezioso che conteneva il dna però è scomparso nei faldoni della scientifica, vuoi per faciloneria, vuoi perchè allora il dna non si poteva ancora trovare. Il fatto che sia caduto addosso a uno dei corpi potrebbe indicare che non tutto è stato così perfettamente calcolato e non si può escludere a priori, come è stato fatto, che uno dei ragazzi abbia dato una manata al suo aggressore prima che questi gli sparasse. Gli otto colpi in sequenza hanno avuto una testimone scomoda, scomodissima: lei sostiene di essere stata a sei metri di distanza, con le sue due figlie, e ha visto tutta la scena. Ora, sei metri sono davvero pochi e diventano pochissimi in una via totalmente deserta, al buio, costeggiata in quel punto in entrambi i lati da muri. Ancora più strano è che la donna raccontò di avere visto i tre allontanarsi verso la fine della via Mancinelli, cioè all’imbocco della via Leoncavallo ed esattamente dove iniziano le rotaie per le uscite dei tram dalla grande rimessa. In tutto, gli assassini hanno percorso 350 metri a piedi circa senza curarsi di essere visti (e tenuti a mente) o fermati da qualcuno che almeno in auto avrebbe potuto passare di lì. Questo particolare non è di poco conto per un duplice omicidio rivendicato dai Nar, una delle più crudeli organizzazioni dell’estrema destra romana composta da fior di delinquenti che maneggiavano le armi da veri professionsti, e per di più per sicari venuti appositamente in trasferta.

Infatti, la donna che poi testimonierà ai poliziotti accorsi velocemente sul posto, dirà che quello che ha sparato aveva un sacchetto di plastica in mano e la pistola dentro il sacchetto: ha così raccolto i bossoli ed evitato il rumore della deflagrazione. La rivendicazione è giunta 4 giorni dopo all’Ansa di Roma, a funerali avvenuti: è la banda Prati dei Nar, brigata combattenti Anselmi. Anselmi era un esponente dei Nar ucciso pochi giorni prima durante una rapina da un gioielliere. Ma perchè uccidere due ragazzi di sinistra di un quartiere a Milano e non un poliziotto a Roma, per vendicarsi? Il nome dell’assassino di Fausto e Iaio si saprà molti e molti anni dopo grazie a frasi e racconti messi insieme da esponenti di destra arrestati (e malavita romana e veneta) e fatti sapere agli inquirenti: Mario Corsi detto Marione, è lui l’assassino. Lo deve ammettere anche il giudice Clementina Forleo che però nel 2000 archivia il faldone perchè non ha nessuna prova in mano. Benchè le prove non ci sono mai state, ci sono invece stati tantissimi indizi tutti collegati l’uno all’altro o facilmente collegabili per gli esponenti che allora ruotavano sulla scena, dalle bande milanesi Turatello e Vallanzasca a quelle romane della Magliana, le une e le altre legate all’estrema destra quando occorreva.

Due ragazzi qualunque, un pochino più in vista di altri, che però mai hanno mandato nessuno al creatore della fazione opposta nè erano noti picchiatori o di qualsivoglia servizio d’ordine, diventano di colpo e per forza “due di noi” in una Milano sempre più attonita e impaurita ma storicamente ribelle e, nelle periferie, ancora fortemente operaia. Ed è così che al funerale, nella medioevale chiesa di Casoretto, accorreranno in 100mila. Un numero da capogiro che nessun omicidio politico a Milano, pur frequente in quegli anni, era riuscito a mettere insieme. Come mai? La spiegazione arriverà non più dalle percezioni personali e collettive di quei giorni ma da chi, in quei giorni, ha subito cercato una spiegazione che andasse oltre la logica, pur conosciuta, della vendetta. La prima, quella adotta dai Nar, non escludeva la seconda, più milanese e legata proprio all’odio verso la sinistra del Casoretto: l’uccisione di Ramelli, giovane di destra dichiarata, missino e ben convinto di lottare per la destra al Molinari, scuola, invece, di figli di operai. Mettendosi così in mostra e venendo da una zona (porta Venezia) tutt’altro che di sinistra (qui venne ucciso l’avvocato Pedenovi e qui abitava e abita ancora La Russa). Ramelli si era beccato una lezione a sprangate che purtroppo fu troppo pesante e lo lasciò agonizzante fino alla morte sopraggiunta molti giorni dopo. La morte di Sergio Ramelli, anch’egli 18enne, segnò un momento di altissima conflittualità nella destra missina e soprattutto i giovani della destra anche loro riuniti in diversi movimenti estremi che mai hanno scordato, più che il ragazzo morto, l’affronto nella zona che ritenevano territorio intoccabile. E così l’hanno giurata a quell’ Andrea Bellini leader del Casoretto ritenuto lo sprangatore di Ramelli, che l’anno successivo (1979) tentarono di uccidere senza riuscirci. L’omicidio di Fausto e Iaio, benchè apertamente rivendicato e confermato da esponenti di destra romani (ma non dall’accusato Mario Corsi) sarebbe potuto rientrare più logicamente in una vendetta contro ragazzi del Casoretto in attesa di far fuori il capo vero, cioè Bellini.

Ma perchè i Nar sarebbero addirittura venuti da Roma per uccidere?

La ricostruzione dell’indagine indica la presenza dell’esponente Mario Corsi a Cremona, dove, in casa sua, venne ritrovata una pistola compatibile con quella che aveva sparato in via Mancinelli, nonchè fotografie dei ragazzi pubblicate dai giornali dopo l’esecuzione. Nonostante questo, Corsi non venne indagato per la loro morte.

Le testimonianze di quella sera di marzo nelle vie attorno a quella del delitto portò successivamente a fare emergere una storia ancor più misteriosa. Una coppia disse di avere notato una moto Kawasaki con la targa coperta, fermarsi davanti a una pizzeria e vide il passeggero scendere e togliere la copertura della targa. L’orario è compatibile con la fuga dal delitto appena commesso in via Mancinelli e il percorso anche (via Porpora). Non lo è invece il farsi spudoratamente vedere in giro in zona dopo un duplice omicidio andando addirittura a mangiare la pizza. Però quella pista non venne affatto tralasciata dalla questura di Milano che, grazie all’uomo che annotò addirittura un pezzo di targa, si scoprì che la moto era intestata a un certo Gaetano Russo fino al 16 marzo 1978 e poi ad Antonio Ausilio, un brutto ceffo diciottenne già accusato di tentato omcidio. Questa pista venne abbandonata, ma oggi, rileggendo le date e le misteriose coincidenze, è difficile dividere il covo aperto per il rapimento Moro nella stessa via della casa di Fausto Tinelli da questa moto in uso a quel tempo alla destra o alla malavita che a Milano come a Roma o come a Verona e Treviso hanno dimostrato di essere spesso unite per un unico scopo: soldi e potere e rovesciamento dei poteri.

Il 31 agosto dello stesso anno, durante la caccia aperta ai terroristi assassini di Moro, il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, comunica al generale Alberto Dalla Chiesa di avere scoperto un covo delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso numero 9. Un caso fortuito. A Firenze, durante controlli a tappeto che allora si svolgevano in tutte le città, un carabinere aveva trovato su un bus di linea un borsello abbandonato. L’aveva lasciato lì, appena adocchiati i carabinieri, Azzolini, uno dei rapitori di Moro e responsabile milanese del covo di via Monte Nevoso. Molto ingenuamente Azzolini aveva lasciato nel borsello alcune “briciole” di Pollicino che i militari seguirono fino a Milano ed esattamente nel quartiere Casoretto. Di più: trovarono la chiave di un portone e per diverse notti provarono in quale casa s’infilava. Finché entrò nella toppa giusta.

L’irruzione però avvenne solo il primo ottobre e quello che si trovò lì dentro, oltre ai brigatisti, è storia di misteri d’Italia, di colpe politiche e umane. E di Gladio.

Nessuno dei militari di Dalla Chiesa collegò il nome di quella via con l’abitazione del giovane ucciso in via Mancinelli solo pochi mesi prima, ma proprio nella casa di Tinelli (che era dirimpettaia) da fine agosto al giorno dell’irruzione, il generale piazzò in un appartamento preso in affitto, uomini specialisti nel servizio di controllo, pedinamento e vigilanza. Dalla Chiesa li voleva prendere tutti i brigatisti, e possibilmente tutti insieme.

Districarsi tra nomi della malavita, servizi segreti, Brigate Rosse, neofascisti romani e milanesi, non è facile. In questa vicenda irrisolta, l’unica certezza è che se anche ci fosse stato un piano di destabilizzazione di Milano (per spostare l’attenzione o per potere emanare meglio dure leggi speciali durante l’emergenza del rapimento Moro) nell’immediato il piano non è riuscito per la fortissima risposta che Milano ha dato, spontaneamente, proprio al funerale dei ragazzi al Casoretto. “Due come noi” diceva tutto: non era una lotta tra bande e nemmeno sprangate reciproche e figuriamoci pistolettate. Due come noi, ha unito tutta la sinistra democratica di Milano in un’onda oceanica che non solo quel giorno, ma che per 40 anni non ha mai scordato i suoi ragazzi finiti in qualcosa più grande di loro.

Nel giro di un anno a Milano iniziò a sfaldarsi la coesione della pur divisa sinistra extraparlamentare e la voglia di lottare contro poteri troppo forti subì contraccolpi enormi. Il piano, dunque, aveva vinto. I primi anni ’80 il Centro Leoncavallo aveva già cambiato faccia e l’entusiasmo dei ragazzi che lo frequentavano si era spento. Il Centro però riuscì a rimanere in piedi e attivo e quando arrivarono le ruspe, anche ad ottenere la sede di via Watteau, altro quartiere, altra storia.

Inutile dirlo: per Moro o per Fausto e Iaio – o per tutti e tre – niente da quel marzo 1978 è stato più lo stesso.

(le foto sono sulla pagina Facebook Bruna Bianchi Giornalista)

Pescara, in vino veritas

Due auto di lusso, una nella tenuta dei nonni, l’altra nell’azienda di vini Il Feduccio, in Abruzzo. Le hanno portate via gli inquirenti che dall’11 marzo, giorno in cui è stato trovato cadavere con due pallottole in corpo il rampollo dei Lamaletto ricchi e famosi in Abruzzo e in Venezuela, seguono più la pista familiare di altre meno interessanti. E se lo fanno non è  “per eliminare ogni dubbio sulla responsabilità dei parenti” nell’omicidio del nipote di Gaetano Lamaletto, il patriarca che tutto ha creato e nulla vuole distruggere, ma, piuttosto, per cercare le prove che in quelle due auto definite ” nella disponibilità del cugino” che porta lo stesso nome del nonno, Gaetano, ci sia o  non ci sia una traccia di un corpo freddato lì dentro lo scorso 8 marzo.

Gaetano Lamaletto, nipote del magnate dellle ceramiche in Venezuela e dal 2016 titolare del Feduccio, ha la stessa età di Alessandro. A differenza di ques’ultimo, ragioniere disoccupato, ha una formazione solida alle spalle per fare l’imprenditore con preparazione e pelo sullo stomaco (è nato a Caracas e ha studiato a Boston), precoce e sicura: quell’azienda di famiglia, nel Chietino, era destinata a lui e non ai suoi 4 cugini o alla zia Laura, sorella del padre, che in Abruzzo era già rientrata  da Caracas all’idea ddel nuovo pallino imprenditoriale di suo padre: il vino. E che vino: presente alle fiere, esportato e osannato come uno dei migliori d’Italia. All’inizio Laura Lamaletto contava molto nel Feduccio, dove lavorava, mentre suo fratello rimasto a Caracas contava molto nell’altra proprietà paterna, che più florida non si poteva immaginare: le ceramiche Bargas. Laura Lamaletto ieri ha raccontato cose che finora aveva tenute per sè e la sua famiglia: nel 2014 il fratello l’ha spodestata dal Feduccio in quattro e quattrotto. Non ci dice perché, nè ci dice se il padre di entrambi fosse d’accordo. Ma il vecchio Gateano Lamaletto benchè non appaia mai in questi giorni e mai parli, non è uomo da restare in disparte negli affari, nè come in questo caso, le dispute familiari. Difficile imaginare che suo figlio Gaetano abbia deciso da solo a chi dare in mano la proprietà vinicola abruzzese, ma soprattutto chi subito spodestare perché non avesse nulla a pretendere. I figli di Laura per la verità erano giovani, uno addirittura si era trovato una bellissima venezuelana e con lei un anno dopo si è sposato ed è andato a Miami a fare il cuoco in ambienti d’elite. Massimiliano però non ha mai litigato col cugino Gaetano, segno che ognuno si faceva gi affari suoi. Non deve essere stato così per Alessandro che, all’apparenza remissivo, buono e docile, nei racconti della madre emerge protettore materno, quasi prescelto per vendicare la sofferenza materna che è sì di denaro, ma soprattutto di umiliazione. La famiglia Neri-Lamaletto, per mantenere un livello sociale ed economico aveva dovuto chiedere aiuto ai parenti. E se il fratello l’ha spodestata senza troppi complmenti, per dovere di economia e potere, ha dovuto passarle dei soldi, non molti (2000 euro al mese) per mantenere una casa elegante,  e quattro figli non ancora del tutto autonomi. Ieri Laura Lamaletto ha dichiarato, quasi urlando, come ha fatto dal primo giorno della scomparsa di suo figlio, che lei,  i suoi figli e suo marito sono onesti. Quello che non dice apertamente è se solo suo fratello e la famiglia di questi è stato disonesto con lei, quasi costringendola a vendere la casa e andare a Miami dal figlio Massimiliano, o se di mezzo c’è anche suo padre. Papà Gaetano del resto non era uno stinco di onestà nemmeno in Venezuela, con alleanze discutibili (e di indagine) col governo di Chavez che si è sostenuto grazie agli imprendirori come lui e altri, molto più di lui in odore di narcotrafico e di lavaggio di denaro sporco. I Lamaletto in Italia non sono mai stati sfiorati da nessuna inchiesta, ma tempo al tempo: la Finanza adesso ha dovuto mettere le mani sul patrimonio di famiglia per verificare se la pista dei rancori abbia potuto portare a una eliminazione fisica del pretendente di giustizia, l’ultimo rampollo rimasto in casa con la mamma. Certo è, a ragion di logica, che per uccidere o fare uccidere un parente scomodo, bisogna anche essere certi di non essere presi. E bisogna anche essere certi di aver tutte le carte a posto, in senso penale e fiscale.

Per questo motivo la pista familiare non è così convincente, benchè sia la più logica come movente quando ci sono forti rancori e comportamenti di potere appresi in una terra, il Venezuela, sinonimo di corruzione, violenza e difesa personale di alto livello e magari trasferiti pari pari in Abruzzo. Insomma, il pelo sullo stomaco, se nasci e vivi e sei imprenditore di un piccolo colosso, a Caracas lo devi avere o finisci male.

Gateano, che in Italia vive con la compagna venezuelana, sembra sparito. Nessuna certezza sul fatto che sia partito il giorno prima del delitto per Caracas (ma cosa sarebbe andato a fare?) e nessuna certezza che gli inquirenti non dicano dov’è, pur sapendolo.

Come per tutti gli omicidi dove pochi parlano e molti ne aprofittano per puntare il dito e finalmente esternare la rabbia covata a lungo, la cautela è d’obbligo.

Della brutta fine di Alessandro si hanno poche certezze. La prima è che lui è andato di sua volontà a Pescara in auto. La seconda è che non è stato ucciso nella sua auto. La terza è che è stato ucciso da una persona che conosceva e della quale non aveva timore. La quarta è che la pistola di piccolo calibro (potrebbe essere anche da borsetta, cioè da difesa personale) l’ha sorpreso durante una chicchierata per lui non pericolosa (sarebbe stato colpito in fuga). Se fosse stata una vera esecuzione (di sicari, ad esempio), Alessandro non sarebbe stato ritrovato con la felpa addosso (e il cappuccio in testa) abbandonato in un luogo qualunque alla periferia della stessa città, poco visibile al passaggio ma facilmente odorato dai cani molecolari, come lo è stato.

Mamma Laura oggi dice che percepiva pericolo per il figlio, segno è che Alessandro, molto attaccato a lei, soffriva con lei della situazione emotiva, ma certamente anche di quella ecomomica, perché a 29 anni e senza aver mai lavorato, non rinunci a tutto quel ben di dio di famiglia solo perchè altri hanno deciso che così deve essere.

Ricchi e sospettabili

PESCARA, DIETRO LE QUINTE DELL’OMICIDIO DEL RAMPOLLO LAMALETTO

Lasciamo da parte il nonno di Alessandro, il giovane ucciso lunedì a Pescara,  che mai viene citato nei numerosi elenchi di denuncia di prestanome corrotti del governo venezuelano. Parliamo dello zio del giovane 29enne morto con due colpi di pistola in testa lo scorso lunedì, Camilo Lamaletto, fratello della madre Laura, primogenito di famiglia nato come lei a Caracas 60 anni fa, e che, al rientro del padre Gaetano e di sua moglie Maria nella terra d’origine abruzzese, ha preso in mano il suo piccolo impero nella repubbica bolivariana. Repubblica oggi in una “derota” sociale ed economica, ma ma non  per i ricchi, che in Venezuela (come in tutto il sistema oligarchico della borghesia latinoamericana) hanno sempre mantenuto il potere legandosi alla finanza, i presidenti che il potere l’hanno preso più spesso con un colpo di mano che con libere elezioni democratiche,  e i servizi segreti a loro volta invischiati con le Farc e le montagne di cocaina e soldi sporchi che passano da uno stato all’altro e da un prestanome all’altro in una sorta di scatole cinesi che impediscono di fatto di fermare il business mondiale.

Ceramiche Balgras si chiama l’azienda fondata dal padre di Camilo, 500 dipendenti e un indotto di 400, con sede a El Rosal, un distretto appena fuori Caracas. Nel 2014, Camilo Lamaletto è stato inserito al posto 16esimo dei 40 uomini più ricchi del Venezuela, ma anche tra i più influenti dello stato bolivariano. Come mai? La storia viene da lontano, in quell’anno 2008 quando una valigia in partenza dall’aeroporto di Buenos Aires e diretta a Caracas, aprì un inedito scenario sul collegamento tra presidenti “socialisti” di supporti in denaro non proprio pulito o da ripulire. Uno di questi prestanome del governo di Chavez (e successivamente dell’attuale di Maduro) sarebbe appunto Lamaletto. Qualcuno ricorda che già negli anni ’90 i Lamaletto vennero accusati di corruzione e dovevano restituire 300 miloni di dollari al governo: ma questi sono appunti trovati in un commento di Twitter e non verificabili. Ciò che invece denunciano i giornali argentini (infobae e Periodico tribuna) che hanno ricostruito dettagliatamente nel 2008 il caso della valigia in cui era coinvolto l’allora ministro argentino De Vido, è l’elenco dei nomi di imprenditori, banchieri e narcotrafficanti collegati l’uno all’altro per sostenere Chavez. Tra questi c’è anche Lamaletto, citato in qualità di colui che si occupava del lavaggio di denaro proveniente dal supposto narcotrafficante imprenditore di cui si è parlato anche in Italia.

Il nome di Camilo Lamaletto viene associato appunto a quello del potentissimo Walter De Nogal Marquez, detto Alex, uomo ben poco appariscente fisicamente ma sempre attorniato da bellissime donne, smanioso di soldi e di potere. Nel 2007 atterrò a Milano Malpensa e, su soffiata di un collaboratore di giustizia della mafia siciliana, venne arrestato con l’accusa di narcotraffico. A lui si associava anche il terrorismo economico, una forma brutale (facendo saltare in aria banche) usata in Venezuela per aumentare il valore del dollaro. Venne portato a Palermo e processato ma non venne ritenuto colpevole e fu rilasciato.

Camilo Lamaletto vive in un ricco sobborgo di Caracas, una collina di moderni grattacieli chiamata appunto Colina Bello Monte. Ha a disposizione due elicotteri e, anni fa, ha aperto con un socio venezuelano un bar discoteca italiana in un distretto della capitale.

Il figlio Gaetano, nel marzo del 2016 ha lasciato il Venezuela (dopo essersi laureato a Boston)  e con la fidanzata italo-venezuelana Valery Conde è tornato nelle terre del nonno, in provincia di Chieti, in Abruzzo, da dove questi partì anni prima facendo poi fortuna in America Latina. A soli 26 anni ha preso in mano le redini del Il Felduccio, già avviatissima casa di produzione di vini premiati in tutto il mondo, tra i quali il Montepulciano d’Abruzzo.

Una delle piste per risolvere il rebus del delitto del giovane Alessandro è appunto quella del Venezuela.  Non sempre però, dietro i contrasti familiari, ci sono soldi da spartirsi. Certo è che, nell’uccisione di Alesandro Neri, descritto da tutti come un bravo ragazzo, così come la madre, il padre e i fratelli,  c’è un metodo (due colpi in testa ravvicinati) che non è parte della malavita pescarese e che, se lo è diventato l’8 marzo, ha alle spalle un ambiente di giustizieri anche per cose di poco conto, comprese quelle che ledono l’onore.

 

La matrigna cattiva

 

Il Pesciolino è stato trovato. Aveva 8 anni, era scomparso da 12 giorni in Almeria, desertica regione del sud della Spagna in una località con sole venti anime di inverno e pieno di buche, pozzi, sabbia e rocce.
In questi 12 giorni Gabriel, per volere di sua mamma, era diventato il Pescaito, sopranome affettuoso che gli avevano dato i genitori, e la Spagna si è rotta la testa per trovarlo indossando una maglietta con un pesciolino o appendendo disegni alle finestre. Tra tweet, facebook, condivisioni di foto e appelli ogni dove. Una ricerca affettuosa e disperata e piena zeppa di fantasie, false piste, persino di un arresto.
Tutti hanno pensato che fosse stato un uomo a portarselo via in 12 metri, tanti erano quelli dai quali è scomparso alla vista tra la casa della nonna e quella della zia, in una piccola curva che ha fermato la sguardo di entrambe. Era pomeriggio di festa in Andalucia dove Gabriel viveva con la mamma separata dal marito, e a lui era stato affidato. I due ex andavano d’accordo e Gabriel passava due weekend alla settimana col padre ma ogni giorno i genitori si sentivano per telefono per condividere ogni cosa del loro bambino.
La gente ha pensato subito al rapimento opera di un marocchino o anche di un gruppo di marocchini. Poi a un ex della madre instabile e anche al padre di lui. Gabriel doveva essere stato vitima di un pedofilo, di sicuro.
Invece Ana Julia, la compagna del padre, lo aveva soffocato in quei dodici metri e messo sottoterra. Ieri, quando ormai i sospetti erano tutti su di lei perché lei, che sempre è stata presente nelle ricerche e abbracciava davanti a tutti madre e padre del bambino, si è tradita facendo trovare la maglietta del bimbo per caso in una stradina a pochi chilometri da casa. Da quel momento l’hanno pedinata. Ana Julia ha lasciato il suo compagno e poi è andata recuperare il cadavere di Gabriel, timorosa che infine lo trovassero. Pieno di terra com’era, l’ha avvolto in una coperta e l’ha messo nel baule dell’auto, e con lui ha guidato per 73 km fino alla casa dove viveva col suo compagno, il papà di Gabriel. E’ qui, appena giunta, che la polizia le ha fatto aprire il baule e lei ancora ha negato: non so chi l’ha messo lì.
La mamma di Gabriel ha subito detto che non vuole odio, non vuole brutte parole, non vuole che si parli di Ana Julia, nè in bene nè in male. Non vuole che le si auguri la morte, come stanno facendo in tanti, così emotivamente coinvolti in questi dodici brutti giorni pieni di speranza. Vuole, invece, che si ricordi la generosità degli spagnoli che hanno aiutato a cercarlo e hanno sofferto con lei in questi 12 giorni.
Ana Julia era venuta ad Almeria dalla repubblica dominicana. Aveva 42 anni. Ventidue anni prima aveva due bambine, figlie seenza padre, e una di queste a soli due anni è morta cadendo da una finestra. Il caso era stato archiviato come incidente, ma ora verrà riaperto. Sei anni fa si era messa con un uomo, un bulgaro, e con lui ha aperto un locale ad Almeria, un bar chiamato Black che non è durato molto. Benchè lui continuasse ad amarla, Ana Julia se ne è andata via e subito si è messa con il padre di Gabriel, che era solo e forse troppo ingenuo per chiederle del suo passato. Stavano insieme da un anno e mezzo, ma con il bambino non aveva legato. Anzi. Gabriel aveva detto chiaro e tondo alla madre che non le piaceva la nuova compagna di papà e sperava che se andasse a Santo Domingo.
Ana Julia non sopportava Gabriel, ma meno ancora sopportava il rapporto che il banbino aveva col padre e la madre e meno ancora quello che i due genitori continuavano ad avere per colpa sua.
Gabriel, povero pesciolino, è finito nelle grinfie della matrigna, che nelle favole ben rappresenta il femminile invidioso e assassino.
Ma questa non è una favola.

Il fratello del carabiniere di Latina è l’altra metà dell’inferno

 

Si chiama Gennaro. Oggi parla a ruota libera tentando di difendere Luigi Capasso e le bambine (“le mie principessine”) uccise da suo fratello con determinata volontà. Non ce la fa a dire apertamente che sua cognata è colpevole, e allora ci gira intorno parlando dell’avvocato di lei “che le ha imposto di non fargli vedere le bambine”. Ecco perché ha dato fuori di matto. Gennaro Capasso arriva a dire che suo fratello ha avuto “un black out di 15 minuti”.
Fa niente se ormai è noto che era stato tutto premeditato (5 lettere) e che ancora (e mai lo saranno) non sono stati resi noti i veri motivi della rottura della coppia. Fa niente se suo fratello ha commesso qualcosa di abominevole, rinforzato dal fatto di essere carabiniere. Siccome è morto, poveretto anche lui e qualcuno anche per lui dovrà avere un sentimento di pietà.
La giustificazione per Luigi Capasso è la stessa che ha lasciato viva (perché soffrisse in eterno, si badi bene alla crudeltà del gesto) Antonietta Gargiulo, e ucciso le sue bambine. Se non l’avesse giustificato, se non avesse avuto pietà, se non avesse provato questi enormi sensi di colpa che a noi donne fanno provare sin da bambine e che pesano come macigni in tutte le nostre scelte, rinforzati dalle colpe che ci danno gli altri soprattutto nei matrimoni (prete, colleghi di una e dell’altro, genitori, parenti) a rischio di rottura, ecco, se Antonietta non avesse giustificato in parte suo marito, sarebbe andata diversamente. Gli ha dato un potere enorme di vendicarsi.
Mancano tanti elementi per comprendere, ammesso che lo si voglia fare.
Mancano, soprattutto, gli elementi della vita di coppia (di cui nulla sappiamo e nulla sapremo mai) e dell’infanzia e adolescenza del carabiniere, di cui nulla sapremo mai neppure da chi potrebbe raccontare molto.
Appena questa orribile vicenda di Latina è terminata, ho scritto un post che ha raggiunto centinaia di persone. Era uno dei primissimi, nei social, che oltre a informare diceva anche che l’epilogo della sua vita ha raccontato la sua vita precedente.
Non è vero che si sbarella per un divorzio o una separazione. Si soffre, e molto anche. Si provano svariati sentimenti, spesso potenti e aggressivi. Non è vero che il senso del possesso scatena l’odio omicida. Non è vero che la disperazione o la depressione conseguenti al senso di perdita conducano ad atti contro gli altri così abominevoli. Lo sappiamo tutti: uccidere i propri figli, per di più piccoli, è un atto abominevole.
Il carabiniere aveva subito un provvedimento disciplinare per truffa assicurativa. L’Arma non spiega di più, ma questo aiuta a capire chi era. Qui si parla di un uomo che aveva il senso del diritto (attenzione, non c’entra col possesso!) e l’incapacità di vivere la conseguente frustrazione per non poterlo esercitare.
La moglie non l’ha lasciato per uno schiaffo o una strattonata davanti ai colleghi. In quell’occasione ha fatto un esposto contro di lui. Si badi bene: arrivare all’esposto significa che aveva fatto altro, e non necessariamente altro violento fisicamente. Qui viene richiesta la capacità di interpretazione: ossessivo, geloso, paranoico e con il senso del diritto. E’ chiaramente un disturbo della personalità, ma non signfica matto, squilibrato o incapace di discernere il bene dal male. Nè signfica che si diventa disturbati a seconda degli eventi stressanti, il più potente dei quali, nella scala degli stressor, è l’abbandono del coniuge e la perdita della casa familiare. Il detonatore che ha fatto esplodere la bomba è stato probabilmente il tribunale, cioè il vicino colloquio davanti a un giudice. Nella mente di personalità come quella del carabiniere killer, il giudice è colui che decide della tua vita privata, dei tuoi desideri, dei tuoi diritti negati. Un carabiniere ne soffre ancora di più, ma spesso molti diventano appartenenti delle forze dell’ordine proiprio perchè già soffrono di un senso di inferiorità e lo compensano con divisa, potere, armi.
Non racconto niente di nuovo. La novità è semmai che ritengo impossibile che le forze delll’ordine, o gli avvocati o gli psicologi cui si era rivolta Antonietta, abbiamo gli strumenti per capire la complessa personalità del narcisista che farà boom quando, pur di non andare in frantumi lui (la sua immagine traballante, il suo senso del diritto negato, il suo vittimismo di fondo, la vigliaccheria e dipendenza) manderà in frantumi chi secondo lui ha provocato la sua immane sofferenza.
C’è poco da fare se non cambia la mentalità femminile: il senso di colpa funge da freno in tutte le relazioni disturbate che solo apparentemente funzionavano. E’ evidente che non hanno mai funzionato: galleggiavano nel non-detto. E’ evidente che si sono rette sull’inganno reciproco. E’ evidente che se un uomo arriva ad uccidere, non è solo perché aveva la pistola in mano, ma perché uccidere il nemico era già contemplato persino dalla scelta professionale. Cosa ha fatto il carabiniere? Ha lasciato intendere ai colleghi per otto ore che non era cattivo, e invece lo era. Ha lasciato intendere anche da morto che lui pensa alle figlie pagando loro il funerale. E le ha uccise restando poi a guardarle per otto ore.
In psicologia si chiama narcisismo perverso.

Il caso (intricato) di Pamela

 

Lo leggeranno gli ormai pochi interessati, perché Pamela non fa più notizia. A me, personalmente, interessa capire come sono andate le cose. Ho cercato di riordinare il caos scritto e televisivo dal 31 gennaio, primo giorno in cui questa storiaccia è apparsa sui giornali con il ritrovamento dei due trolley. Mancano molti riscontri effettivi (non dispongo di orari esatti, celle telefoniche, numeri di telefono chiamati, ecc. e verbali di interrogatori anche solo testimoniali) e non mi sono nemmeno addentrata nell’autopsia non avendo nessun documento ufficiale in mano (e forse anche non credendo ciecamente alla sua veridicità, essendo stata doppia).

IL 29 GENNAIO 2018
Pamela è ospite da ottobre della comunità di recupero Pars di Corridonia, paese che dista circa mezz’ora d’auto da Macerata, nelle Marche, lontano dalla costa. Viene da Roma, dove da diverso tempo era diventata ingestibile in casa e in altra comunità. Pamela, nel 2016, dopo una breve storiella amorosa, conosce un ragazzo problematico e piccolo spacciatore e con lui inizia a drogarsi. Secondo la madre non si fa (cioè non si buca), ma sniffa eroina oltre che hascisc. E’ lei stessa a scriverlo su Facebook all’età di 16 anni: forse un giorno smetterò di fumare. Pamela però non si droga solo perchè ha conosciuto un drogato, ma si droga perchè lei stessa ha un disturbo della personalità che la porta a incontrare le persone come lei. Pamela è immatura. Si affida alla madre che la vuole recuperare e lei stessa è contenta dopo poco tempo della comunità Pars dove ha trenta compagni di sventura ma nel giro di due settimane la individuano per un lavoro di responsabilità: occuparsi della lavanderia. E’, questo, un lavoro vero e proprio molto in uso in tutte le comunità e anche negli ex ospedali psichiatrici e serve a responsabilizzare uno o più ospiti in cura che maggiormente si ritengono in grado di compiere l’attività. A dicembre però Pamela comincia ad accusare malessere. E’ lo zio avvocato (lo stesso che ora difende la famiglia e, per inciso, uomo impegnato in Forza Nuova a Roma) a riferire che vomitava. Da ottobre Pamela non poteva più toccare droga e nemmeno telefonare. Come in tutte le comunità però, una volta maggiorenni, non esiste la coercizione, ma solo convincimento e regole, a volte molto rigide per esempio sui contatti con l’esterno. Nonostante questo, Pamela sistema le sue cose nel trolley e lunedì 29 gennaio imbocca il vialetto principale del Centro di recupero, i cui responsabili diranno poi che hanno tentato di fermarla, inutilmente. Non è escluso invece che non se ne siano nemmeno accorti. Quando se ne accorgono avvertono la famiglia (è la regola) per sapere soprattutto se andrà a casa da loro. Che abbbiano avvertito anche i carabinieri ho i miei dubbi (non ci sono reati) mentre è certo che l’abbia fatto la madre al commissariato di Roma o lo stesso giorno o il giorno successivo.
Si sa per certo che Pamela incontra un’auto mentre cammina in mezzo alla campagna, nell’unica stradina che collega i vari paesi. E’ un Opel guidata da un meccanico della zona che, alle 13 e 30, stava rientrando al lavoro dopo essere stato dalla sorella a pranzo. Carica Pamela in auto e la porta, con il consenso di lei, nel garage della casa della sorella, dalla quale è appena uscito. Stende una coperta (così racconterà lui) e ha un rapporto sessuale con Pamela . La quale Pamela ha bsogno di soldi e cerca solo quelli, disposta anche al meccanico 50enne pur di averli. Il rapporto potrebbe però essersi risolto in uno orale e anche piuttosto veloce, tipico delle ragazze che cercano droga, e degli uomini che tirano su ragazze per la strada di cui hanno immediato sentore di prostituzione. Il meccanico sostiene di aver lasciato Pamela alla stazione più vicina, cioè quella di Piediripa- Mogliano, che dista solo 9 minuti di treno da quella principale di Macerata, verso le 18. In effetti, alle 18 e 53 c’è un treno che arriva a Macerata alle 19,02. Pamela intende andare a Roma, unica destinazione a lei conosciuta (non necessariamente a casa, o avrebbe fatto una telefonata alla madre chiedendo un cellulare in prestito, cosa che fanno tanti giovani) e da Macerata partono i treni per Roma. Sa ben poco della zona (prova ne è che non conosce il servizio di autolinee, nè che avrebbe potuto spostarsi su direttrici più servite) e ha pochi soldi, e perciò deve escludere tutti i treni di alta velocità da qualunque stazione partano. L’arrivo a Macerata è quello di una ragazza spaesata che cerca di capire come muoversi dalla città ma nello stesso è quello di una ragazza che non sta bene (è scappata da un progetto e non ne ha altri) e ha bisogno di aiuto che però non chiede alle persone per bene (magari donne o personale della stazione), ma a uomini che la vedono una preda facile. E’ appunto così che incontra fuori dalla stazione un tassista italiano di Macerata che la invita a cenare a casa sua, lavarsi e dormire. La rivelazione, va detto, è di Quarto Grado, che ha scovato questo “buon samaritano” numero due, dopo 15 giorni puntati solo sui nigeriani. Oggi verrà interrogato.

Il 30 GENNAIO 2018

La mattina dopo verso le 8,30-9, il tassista riporta Pamela in stazione e lì la lascia. Lei andrà subito in biglietteria dove chiede (c’è la testimonianza dell’impiegata) quale treno può prendere per Roma. Uno è già partito (alle 7,34) e il secondo è alle 13,08. Costa 17 euro e 30. E’ inquieta, deve attendere ore in stazione, fa su e giù dentro e fuori, si ferma al binario e vede un ragazzo di colore seduto su una panchina a cui chiede se ha del fumo. Lui gli risponde che lui no, ma ce l’ha un suo amico; Innocent Oseghale. Difficile che si siano contattati per telefono: più facile che il ragazzo gli abbia detto il nome “Innocent” e il luogo dove trovarlo: i giardini di piazza Diaz. Non è un mistero per nessun maceratese e dintorni (fino a Civitanova Marche, sulla costa) che i nigeriani spaccino hascisc davanti alla fermata delle autolinee della piazza. Ma Pamela non conosce Macerata e per arrivare lì deve affidarsi a un tassista. Stavolta è un peruviano. I sudamericani sono curiosi. Così di Pamela, dopo aver trattato il prezzo della corsa (che pagherà due euro meno rispetto alla richiesta di 7 euro) si siede davanti e non perché, come lui spiega, si possa fare, ma perché il tassametro è stato spento avendo trattato sul prezzo della corsa. La distanza è di poco più di un chilometro, ma l’auto deve fare un giro ben più largo. Il peruviano le chiede da dove viene e dove va e lei butta lì che deve tornare a Roma ma prima deve incontrare una persona ai giardini. Il tassista la descrive agitata e con lo sguardo attento a capire chi è Innocent e dove sarà, ma è lo stesso tassista a depositarla davanti alle autololinee, come dire nella bocca del leone. Cosa si sono detti i due, se Innocent non lo svelerà (e io credo che mai lo farà) non possiamo saperlo. Possiamo immaginare che Innocent le abbia detto che aveva solo una dose sola di hascisc (era già stato arrestato per spaccio alle scuole e nessun pusher tiene più di due dosi) e possiamo immaginare che Pamela abbia chiesto qualcosa di più forte. Perché stava male. Innocent Oseghale, che come tutti i pusher sono collegati gli uni agli altri, la accompagna ai giardini dello stadio dall’amico Lucky Demond che invece spaccia anche eroina. Lo stadio è in piazza della Vittoria dove c’è il monumento ai caduti che pochi giorni dopo Luca Traini userà per erigersi a giustiziere della patria, avvolto nella bandiera tricolore, e qui verrà arrestato.
Cosa succede a questo punto? Lucky Demond vende la dose di eroina si suppone tra i 20 e 30 euro (l’effettivo costo è 20 ma Pamela non conosce il mercato e potrebbe aver pagato di più) e resta dov’è. Sono circa le 10 e 30 del mattino. Pamela e Oseghale si avviano verso via Spalato, dove lui ha la casa. E’ lui a dirle che può fermarsi a casa sua, dove sua moglie e sua figlia non ci sono per qualche ora (in realtà soo ospiti di una casa famiglia lontano da Macerata) e lei può riposare e attendere il prossimo treno. E’ lui a dirle, in modo affabile e tranquillo, che l’aiuterà. Cosa vuole Pamela? Essere aiutata, drogarsi, dormire e non pensare a niente per qualche ora. Perchè non fidarsi di Oseghale così gentile che è pronto ad ospitarla anche a casa? Non si era già forse fidata del meccanico e del tassista? E nessun drogato può essere razzista: gli spacciatori sono neri. Pamela ormai deve avere pochissimi soldi in tasca e le servono per il treno. A Roma ci vuole andare, anche se ancora non sa dove. Ma Roma, almeno, la conosce e ha contatti.
Oseghale la conduce in via Spalato ed entrambi decidono di comprare qualcosa da mangiare, sono ormai quasi le 11. Segno che Pamela inende fermarsi diverse ore, se non addirittura un’altra notte a Macerata). I due entrano in un piccolo supermercato a 100 metri da casa sua, in una bella via residenziale: è il supermercato dove lui va sempre anche con la sua compagna e la bambina che vivevano con lui fino a pochi mesi fa. Qui comprano pasta e qualche dolce per un totale di 12 euro. Dieci ce li mette Oseghale, due Pamela. Pochi passi più avanti c’è la farmacia, ma Oseghale non vuole entrare con Pamela ad acquistare la siringa. Non gli importa farsi vedere in giro con Pamela, gli importa non farsi beccare con la droga o lo cacceranno via. Pamela compra la siringa (la farmacista confermerà) alle 11,02 minuti, come dice lo scontrino che verrà poi ritrovato a casa di Oseghale. Intanto però il tassista peruviano casualmente entra nella stessa farmacia e rivede la ragazza col trolley che aveva trasportato poco più di un’ora prima. Non si salutano. La vede anche allontanarsi con uno di colore che l’aspettava sul lato opposto del marciapiedi. Lui dirà anche che li vede entrare insieme al 124 ed è interessante notare che, essendo la farmacia più indietro rispetto alla casa e la strada a senso unico in discesa verso il centro, li deve avere osservati molto attentamente, addirittura aver guardato il numero civico che poi racconterà ai carabinieri e diventerà un tetimone importantissimo. Non è stato l’unico ad avere visto Oseghale con Pamela in un orario in cui le persone scendono dall’autobus poco distante o rientrano a casa per pranzo. E i testimoni infatti confermeranno di aver visto questa ragazza con un grande trolley entrare nella casa di Oseghale. Siamo in provincia, gli estranei destano sempre curiosità.
Sono da poco passate le 11 e i carabinieri nelle loro indagini rilevano le prime telefonate fatte da Oseghale, tutte brevissime.
Ma è dalle ore 12 che l’indagine colloca l’agganciamento delle celle dei tre sospettati (Oseghale e altri due nigeriani) nella cella della zona di via Spalato. Attenzione: aggancio delle celle non signfica che erano presenti in casa, ma che hanno chiamato o ricevuto chiamate o whattsapp o sms. Alle 14 e 30 un certo Antony, nigeriano punto di riferimento dei connazionali per le pratiche di soggiorno e altro, chiama (o è chiamato da Oseghale. Lui riferisce: ci siamo sentiti per il permesso di soggiorno scaduto e lui mi ha riferito che aveva una ragazza in casa che dormiva). Tradurre queste parole non è facile anche perché potrebbero essere inventate. Il senso potrebbe essere stato: non posso parlare adesso, c’è una persona estranea e per di più italiana.
Gli investigatori collocano la morte di Pamela tra le 12 e le 19 di quel pomeriggio. Ma un po’ si contraddicono con i cellulari. In sostanza Oseghale avrebbe fatto una serie spaventosa di telefonate a chiunque “cosa incompatibile con l’ouccparsi contemporaneamente di violentare, uccidere e fare a pezzi una ragazza” scrive il gip nell’ordinanza. Non dispongo del significato esatto di cella telefonica in questo caso: se i due sospettati hanno chiamato Oseghale è evidente che non erano in quella casa, ma si può sapere dov’erano, e invece non viene detto. Uno dei due, Lucky 10, vive ben distante da Macerata, mentre Lucky Desmond lo spacciatore di eroina, vive in città. Lucky 10 non ha nessun mezzo pubblico per raggiungere Macerata perciò i due potrebbero aver passato la notte insieme o addirittura uno dei due nella casa di Oseghale che era abituato ad ospitare connazionali. Lucky 10 è il terzo uomo fermato a Milano dove si presume fosse in fuga con la moglie, nigeriana ospitata invece tra i profughi di Cremona, per raggiungere la Svizzera. Lucky 10 era già andato a Cremona, non si sa quando, per prelevare la moglie, dato che i carabineri hanno intercettato il suo cellulare lungo la via Emilia (in treno) mentre stavano raggiungendo la stazione Centrale di Milano. Li hanno presi sui binari.
A Lucky Demond si è arrivati facilmente perché il suo nome è stato fatto da Oseghale: “lui ha venduto l’eroina a Pamela”.
All’altro nigeriano si è arrivati tramite i numeri di cellulare trovati in quelo di Oseghale e soprattutto agli orari delle chiamate, cioè tra le 11 e le 19. Alle 12 tutti e tre i telefoni risultano spenti, ma non è così, visto che il quarto uomo, considerato il tira fuori guai dei profughi, parla ben due volte al telefono con Oseghale tra le 14 e 30 e le 17 e 30. E’ lui a dire che Oseghale l’ha chiamato per dire che la ragazza che aveva in casa è stata male e non sapeva cosa fare. Il racconto collimerebbe con l’affermazione di Oseghale: Lucky Demond ha venduto l’eroina, lei è stata male e io sono scappato. Forse non è scappato, è stato preso letteralmente dal panico. Dunque cosa ci facevano gli altri due a casa sua, così come li piazzano gli investigatori?

LE ACCUSE
Il quadro accusatorio è violenza di gruppo, o almeno tentata violenza di gruppo. E’ una delle più – scusate -banali motivazioni di un delitto. Ma in questo caso sono tante le cose a non combaciare. Oseghale e Demond sono cattolici, chi l’avrebbe detto? Spacciano, ma non hanno dato nessun segno di essere violenti, nè apertamente squilibrati. Oseghale sì, è uno che male si adatta, che non vuole imparare l’italiano, che si accomoda in una casa affittata da una italiana (e che casa!) , che con lei fa una bambina ma naturalmente non se ne occupa affatto. Ed è uno che va letteralmente nel panico e la sua reazione ansiosa è chiamare mezzo mondo e chiedere aiuto. Se aveva due “amici” in casa perchè ha tanto bisogno di chiedere aiuto all’esterno e fare sapere a tutti che aveva un problema grosso?
Le telefonate e le celle telefoniche agganciate dagli altri due sono la chiave di volta per capire se le cose sono andate come dice la Procura: Oseghale chiama i due amici (che forse si trovano insieme quella mattina) per fare un festino a Pamela che lui è riuscito a portare facilmente in casa. Pamela però ha ampiamente dimostrato di essere una ragazza pronta anche al sesso pur di aere soldi o droga in cambio e anche la gentilezza di un luogo che ricorda una casa senza regole. Vuole cucinare la pasta al suo violentatore? Ma no. Entrambi vogliono delle cose l’uno dall’altra, quelle dei disperati. E non è così scontato che sia il sesso a unire i disperati. E’ così certo che gli altri due siano stati presenti mentre Pamela dormiva o era caduta in uno stato “fatto” non solo da eroina ma anche da hascis e chissà che altro? E’ così sicuro che Oseghale non racconti una piccola parte di verità “è’ stata male” e ha chiamato in aiuto i connazionali e addirittura un terzo (solo al telefono)? Manca però la seconda parte di questa tragedia, chiamiamola annunciata, o meglio tragedia tra disperati: la ragazza è morta o è stata uccisa? Se fosse stata uccisa, logica vuole che Oseghale non avrebbe chiamato un aiuto esterno per risolvere il guaio (o portare via il corpo o salvarla) e logica vuole che il cellulare di Lucky Diamond alle 19 non ricevesse la telefonata di Oseghale se questi fosse stato in casa a sezionare il cadavere. E’ stato lo stesso medico legale a sostenere che il lavoro era accurato e faticoso e richiedeva molto tempo. Oppure richiedeva un grande sforzo pur di non essere accusato di un crimine da spaccio: l’overdose.
Non è il pirmo caso, questo, di un solo uomo che compie un sezionamento in dieci pezzi, numero che è servito a essre diviso in due trolley di discrete dimensioni. I particolari emersi dall’autopsia non sono confermati: perciò non mi addentro nella scarnificazione descritta con enfasi, ma solo nel dissanguamento che effettivamente deve essere stato necessario, sul terrazzo, per la stessa ragione: portare via il corpo “pulito”.
Alle 22 Oseghale chiama l’autista conosciuto dagli extracomunitari, il camerunense che dovrà aiutarlo a far sparire Pamela ormai ridotta molto male. Se chiama lui,è segno che non aveva nessun altro, dopo aver tentato inutilmente di coinvolgere il quarto uomo e ben sapendo che nessun nigeriano possiede un auto. Perchè il camerunense? Semplicemente perché è uno che di solito tiene la bocca chiusa. Ma stavolta non lo fa. Perchè c’è una ragazzina depezzata che lui ha persino visto (è tornato indietro a vedere cosa aveva lasciato nei trolley il suo passeggero) ma ha preferito farsi i fatti suoi. Fino al giorno dopo (la notte porta sempre consiglio).
A questo autista improvvisato, Oseghale chiede di essere portato coi due trolley ch carica lui direttamente in auto, a Tolentino. Caso vuole che sia la stessa città dove vive Luca Traini, pronto a fare una strage di tutti loro. Alle 22 e 20 l’auto incrocia una telecamera che ne registra il passaggio: ha appena deviato dalla statale che porta a Tolentino per entrare in una strada provinciale che costeggia il quartiere chiamato Casette Verdi, prima periferia di Pollanza. E’ un luogo a caso, individuato alla vista per essre ancora tra i campi e non ancora in città. Ma talmente a caso che Oseghale dà lo stop brusco all’autista e sceglie di disfarsi dei due trolley quasi davanti a una grande villa, mezzi buttati dentro un fossato a latere strada. Un gesto veloce, che indica la fretta e l’ansia e la fretta e l’ansia non sono mai buone consigliere. E’ infatti così che lo prenderanno subito.
Nessun criminale farebbe una cosa simile, nessun omicida, nessuno che non volesse sicuramente essere preso.
Oseghale e Lucky Demond però hanno fatto altro insieme, e lo dice il negozio dove hanno acquistato verso le 19 di quella sera (ecco la telefonata) un contenitore di candeggina da 10 litri. Un ripiego, perché cercavano altrettanta quantità di acido muriatico e non l’hanno trovata.
La candeggina non serve a niente, ma molta gente (sopratutto chi è ospite di comunità, centri profughi o hotel) è convinta che serva a cancellare le tracce anche di sangue. Sbianca, non cancella un bel niente. Anzi: se cammini su un pavimento lavato con la candeggina lasci persino le impronte ben visibili. E’ questo appunto che hanno trovato i Ris.
Pamela è stata lavata con la candeggina, probabilmente per la stessa ragione: togliere tutto il sangue che non deve essere stato poco, inzuppare stracci e pulire: corpo e pavimento hanno ricevuto lo stesso trattamento. Da chi? Solo Oseghale, lui con Demdon o tutti e tre? Oseghal e Demond sono entrambi cattolici e questo, oltre allo spaccio di cui vivono, li unisce in una sorta di fratellanza. Insieme giocano anche alle scommesse nel locale proprio a due passi dalla casa di via Spalato. Certamente tra loro l’aiuto è sacrosanto. Lucky 3 invece è impaurito così tanto che non scappa da solo, ma va a prendere la moglie, segno di un legame affettivo al quale non ha rinunciato. E di ben pochi calcoli.
Pamela, il cui corpo è stato descritto come smembrato e quasi scuoiato, a me è apparso invece lavato con cura quasi maniacale, depezzato con disgusto (ricordo che Oseghale, al momento dell’arresto, cioè un giorno dopo, è apparso confuso e ciò esclude la freddezza dello psicopatico) e infine depositato con orrore appena è stato possibile.
Una serie di concatenamenti meschini (degli italiani e del sudamericano) e il potente immischiarsi della politica e del gusto del macabro, hanno reso, a mio parere, una vicenda tristissima di gente ai margini, ignorante e immatura, spaventata e senza regole, simile ad altre (tipo il caso Meredith, violenza di gruppo) senza necessariamente esserlo.
Ps: Gli aggiornamenti ufficiali (della Procura di Macerata) potrebbero modiicare il ragionamento e individuare responsabilità diverse da quelle che mi sono sentita di proporre.