24 luglio 1971, sabato mattina, Università Cattolica di Milano.
Una ragazza di 26 anni, Simonetta Ferrero, muore accoltellata nei bagni.
Dopo 48 anni e tanti altri femminicidi come questo, un nuovo sguardo sulle indagini di allora e le numerose imprecisioni riportate nel corso degli anni da giornali e blog di nera su uno dei rari delitti efferati avvenuti a Milano. Un cold case che forse tanto freddo non è.
La ricostruzione dell’omicidio di Simonetta mi stava particolarmente a cuore. Una sorta di testardaggine che ho verso tutti i casi irrisolti di donne massacrate e in particolare di questo, avvenuto nella mia città, e che ho conosciuto solo dopo molti anni, quando ero già giornalista di cronaca nera ma non avevo ancora l’esperienza di oggi. In rete si trova moltissimo di questo caso ripreso un po’ da tutti i colleghi neristi e da altri che tengono solo in piedi i vecchi casi senza aggiuNgere nulla di più. La prima cosa che salta all’occhio è la mancanza di fonti certe, come se nessuno abbia avuto accesso ai verbali dell’indagine di allora, con il risultato che le coltellate date a Simonetta sono per alcuni 33 e per altri 44, che Simonetta per alcuni è andata in corso Vercelli da un tappezzerie e per altri dal tappezzerie di via Lulli non sarebbe mai arrivata. Che si sarebbe alzata alle 9,30 e sarebbe uscita alle 10 e 30 da casa e sarebbe stata uccisa prima di mezzogiorno dopo aver fatto almeno tre soste per acquisti in una zona non vicina a casa sua. Che gli operai che quel giorno lavoravano lì sarebbero usciti alle 12 e insomma, l’imprecisione non aiuta a ricostruire, anche se, nel 1971, si presuppone che le indagini della Questura di Milano questa confusione non l’abbiano fatta. Perciò, quello che conta oggi è rileggere con occhi diversi un mistero che mistero potrebbe non essere. Di sicuro, solo 15 anni dopo, il dna avrebbe fatto uscire o entrare nella scena del delitto le persone che erano presenti quella mattina in Università. Poche, pochissime: una cinquantina. Di sicuro, i casi come quello di Simonetta, o di Lidia Macchi, anche lei della Cattolica ma uccisa a Cittiglio (Varese), che invece nell’87 ha rivelato il dna restando comunque irrisolto per 40 anni, sono stati casi difficili perché interpretati con pochi e conosciuti metodi di indagine.
Milano nel 1971 aveva i tram colore verde militare. Era una città in subbuglio, cupa, violenta, ribelle e repressiva. Contava un milione e 700 mila abitanti con classi sociali più basse che alte, periferie cresciute in fretta e furia, rapinatori in bande, uomini che mostravano i genitali alle ragazze per la strada o le importunavano apertamente, con rivolte studentesche e operaie, manifestazioni e cariche della polizia. Con arrampicatori sociali senza scrupoli e trame nascoste di potere finanziario a livelli alti, altissimi, quelli che poi decideranno le sorti dell’Italia. C’erano movimenti ribelli, non solo politicamente. C’erano gli hippy, quelli che si spulciavano in pubblico (come li definiva allora il Corriere della Sera), figli dei fiori importati da altre culture, e c’erano gli scontri tra destra e sinistra, fili neri di stragi che diventeranno una vera strategia della tensione dal 1969 con la bomba di piazza Fontana. C’erano occupazioni di stabili, come quella proprio in piazza Fontana. C’era disagio e voglia di reagire al disagio, chi in un modo chi nell’altro. C’era, sicuramente, una violenza diffusa, ammessa ma repressa senza guardare troppo verso chi si dirigeva. Come la notte al Vigorelli del 5 luglio 1971 quando la polizia ha caricato una folla mista che inneggiava con potenza ribelle ai Led Zeppelin e le loro urla di guerra vichinghe e la voce di un Gianni Morandi che ben rappresentava la massa che voleva dimenticare la difficile quotidianità. Le temperature di quell’anno non erano così alte. Era una estate, come alcune precedenti e alcune successive, considerata fresca, cioè intorno ai 27 gradi. E agosto era più caldo di luglio. La gente andava in vacanza tutta insieme, per 15 giorni al massimo. Le attività riaprivano subito dopo Ferragosto.
Chi poteva permettersi vacanze più lunghe era considerato ricco e ricco lo era davvero. In generale, chi era in età di lavoro, qualunque professione facesse, restava anche a fabbriche chiuse a controllare, andava e veniva dal mare, ma restava, come si direbbe oggi, reperibile. I commercianti, allora tantissimi a Milano, staccavano lasciando anche la città in mutande solo nelle zone centrali e per una decina di giorni. I numerosi meridionali tornavano a casa, le scuole chiudevano per tre mesi e si andava alle colonie estive in Liguria o a Clusone o in quelle cittadine, come il Trotter.
Simonetta Ferrero era di famiglia benestante. Era nata a Casale Monferrato, in Piemonte, e si era trasferita alla fine dell’adolescenza a Milano perché il padre, ragioniere, aveva trovato posto alla Montedison appena nata (la fusione tra Montecatini e Edison) con sede in piazzale Cadorna. Erano andati ad abitare in una zona da un lato bella e dall’altro no, scomoda per il centro, e a quei tempi, a tratti, persino pericolosa: via Osoppo, vicinissima a piazzale Brescia e alla sua monumentale chiesa.
Simonetta era molto credente e praticante, così come la sua famiglia. In famiglia c’era uno zio monsignore e lei aveva studiato dai salesiani prima di iscriversi alla Cattolica. Era molto impegnata anche in associazioni di volontariato tipiche di allora: la San Vincenzo e la Croce Rossa. Mondi abbastanza altolocati ambiti proprio dalle famiglie introdotte nel circuito della Chiesa. Simonetta, seconda di tre figlie, viene descritta per quello che era: poche parole, nessun fidanzato nè flirt conosciuto in casa, rigida, studiosa e con ambizioni ben chiare: fare un lavoro importante e sposare a tempo debito uno importante. La prima ambizione viene presto raggiunta, a fine università, Scienze politiche, considerata di preparazione generica e non specialistica: il padre, come allora si usava fare con grande facilità, la fa entrare alla Montedison dove subito si occupa di decidere le sorti dei neo laureati che vogliono far parte del più importante gruppo economico di allora. E’ professionalmente dura: risponde alle direttive e non lascia margini alle intuizioni. Razionale e calcolatrice non ha sensi di colpa, ma doveri e morale cui rispondere.
La sua obbedienza a direttive superiori fatte proprie, deve averle dato una buona dose di senso di indipendenza se quella mattina del 24 luglio ha previsto di fare diverse cose in poche ore, solo in parte di aiuto alla famiglia e altre per sè che chi aveva un po’ di soldi, così giovane e in quell’epoca, poteva permettersi. La sua autonomia di quella mattina perciò va inquadrata in quel “io posso” farlo, io ce la faccio da sola. Non sappiamo se la sua famiglia fosse in completo accordo con lei, però sappiamo che hanno atteso poche ore a fare la denuncia di scomparsa e sappiamo che alla notizia della sua atroce morte, padre e madre hanno avuto un malore e neppure se la sono sentita di riconoscere il cadavere.
La scala G dell’Università Cattolica, l’ex antico convento con preziosa biblioteca dell’attigua Basilica di Sant’Ambrogio, si trova nel secondo cortile ideato dell’architetto Filarete, lo stesso che ha progettato quelli dell’Università Statale quando sorse come ospedale cittadino sotto i Visconti. E’ una scala stretta che porta al secondo e ultimo piano. Essendo sati concepiti come piani alti, c’è un ammezzato che sembra un primo piano. Oggi c’è una porta chiusa, e i bagni sono stati distrutti, ma nel 1971 c’era il portone che conduceva ai bagni delle donne. Si badi bene: portoni alti e robusti. E si badi ancora bene: i bagni, anche oggi, di donne e uomini sono ben divisi e lontani l’uno dall’altro. Perciò, chi entrava in quel portone, poteva solo essere donna e solo avere bisogno della toilette.
Quel sabato del 24 luglio 1971, Simonetta è uscita di casa verso le 9,30 (le notizie riportate non coincidono, qui si cerca l’orario più logico) dicendo che sarebbe rientrata per pranzo. A che ora? Si può supporre che a quel tempo e in quella casa un po’ borghese si pranzasse intorno alle 13. Aveva molte cose da sbrigare Simonetta, forse un po’ troppe per i tempi stretti. Per andare in corso Vercelli, sua prima tappa per comprare un dizionarietto tascabile italiano-francese dovendo partire la sera stessa con la nave per la Corsica in vacanza con la famiglia, ha dovuto prendere il tram numero 16 (e non il 15 come è scritto ovunque) unico che fermava in piazzale Brescia angolo via Osoppo e percorreva corso Vercelli e corso Magenta. Sappiamo poco delle sue soste con orari precisi perchè non esistevano gli scontrini fiscali e perché, pare, nessuno si ricordi di lei. Però sappiamo con certezza che nella sua borsa gli acquisti fatti sono stati ritrovati dalla polizia.
Simonetta andava in una zona che ben conosceva perché la percorreva ogni giorno e potrebbe essere solo questo il motivo per cui ha scelto di fare acquisti in quella zona e non nella sua. Ma c’è un altro motivo: il tappezziere al quale doveva portare dei campioni di stoffa per le sedie di casa, commissione datale dalla madre. Un po’ strana per la verità il 24 di luglio, a ridosso della chiusura estiva, ma non si può escludere che gli artigiani lavorassero in agosto e la famiglia pensò di trovarsi il lavoro pronto al rientro. Ciò che è certo è l’acquisto del vocabolarietto, della stoffa mai consegnata e dei profumi acquistati in Galleria Borella che si trova tra via Carducci e le due piazze, quella della Basilica di Sant’Ambrogio e quella della Cattolica, largo Gemelli. Oggi non passano più le auto, ma a quel tempo sì. Perciò dobbiamo immaginare una Milano trafficata, con gente in giro e donne benestanti della zona che al sabato mattina andavano in profumeria. Pare ovvio che quella profumeria è stata scelta da Simonetta perchè la conosceva o non avrebbe senso il giro che ha fatto. La sua laurea risale a 2 anni prima e quella galleria, essendo nascosta e di collegamento, è nota ai residenti o a chi frequenta la Cattolica. C’è comunque una stranezza anche nel percorso di Simonetta: se proveniva da corso Vercelli che poi prosegue in corso Magenta, a piedi o in tram, è sbucata di fronte al bar Magenta di via Carducci e nessun universitario passa da via Carducci, semmai dalla vietta laterale che in due minuti conduce a largo Gemelli, di fianco alla sede, enorme, della polizia, che da sempre è anche un convitto per poliziotti non residenti a Milano. Anche chi vorrebbe andare in un negozio della Galleria taglia nello stesso punto. Perchè è così importante? Perchè si sarebbe trovata alla Università subito e non dopo l’acquisto di profumi. Perciò dobbiamo fare altre ipotesi: Simonetta non passa mai da via Carducci, ma taglia, come tutti, dal retro del bar Magenta, attraversa largo Gemelli e va alla Galleria. Solo all’uscita decide di andare in Università dove ha messo piede l’ultima volta due settimane prima per prendere delle dispense per la sua amica, dispense che però non le ha consegnato, essendo state trovate in casa sua. Se effettivamente doveva andare anche in via Lulli, che si raggiunge proprio fiancheggiando la Cattolica e la caserma della polizia, il percorso è corretto. Quindi, regge l’ipotesi che in Cattolica ci sia andata perchè aveva bisogno del bagno e il bisogno l’ha avuto solo dopo aver comprato in profumeria dove non si ricordano di lei per il numero di clienti presenti e forse la fretta dell’acquisto. Quella del bisogno del bagno è una ipotesi di polizia fatta tenuto conto di due fattori; uno, che è stata uccisa nei bagni, due che l’autopsia ha trovato la vescica svuotata, cosa impossibile se non avesse effettivamente evacuato, avendo fatto colazione intorno alle 9. La polizia però si è un po’ rotta la testa sul perché avesse scelto proprio quei bagni. Non erano della sua facoltà e nemmeno i più vicini all’entrata. Ci viene in aiuto la logica femminile: Simonetta sa che il 24 luglio le facoltà sono chiuse. Sa anche che la biblioteca è aperta e si trova proprio in quell’area dell’Università. Ma sa anche che se fosse andata nei primi bagni vicini all’entrata, col portiere che tutto può vedere da lì, si sarebbe un po’ vergognata ad usare l’Università che non frequenta più da due anni solo per una questione fisologica come fosse stato un bagno pubblico. Non è la sola a fare la stessa cosa: io uso lo stesso criterio. Perciò questo escluderebbe un ragionamento complesso, tipo quello dell’appuntamento segreto, nei pressi della biblioteca, che pure è stato tenuto in considerazione.
Quella mattina ci sono diversi persone. Che ore erano? Facendo calcoli un po’ approssimativi, probabilmente era poco prima di mezzogiorno. Il tram da attendere, il percoso di 20 minuti, i due negozi, la camminata e infine la pipì. Però siamo abbastanza sicuri che fosse prima di mezzogiorno, perchè i muratori sotto l’ammezzato hanno staccato giusto a quell’ora, come tutti i muratori.
Certo quei muratori sono provvidenziali all’assassino e una grande sfortuna per Simonetta, perchè usano il martello pneumatico e nessuno sente le sue probabilissime urla.
Simonetta entra in bagno tranquilla, con la borsa nera in mano. All’uscita, nell’antibagno, apre un rubinetto dell’acqua per lavarsi le mani e non si accorge di una persona che è entrata e non è una donna. Anzi: è una furia con un coltello in mano. Come nei peggiori thriller, il luogo dove la donna e più indifesa e la sorpresa giocano un ruolo fondamentale. Nonostante tutto, Simonetta si difende cercando di evitare i colpi. Si sa quello che ha cercato di fare, dalle ferite sulle mani, tipiche da difesa, e dalle manate di sangue lasciate ovunque nel piccolo anti bagno. Non riesce però ad uscire, segno che l’assassino oltre a colpire ripetutamente, la costringe più a difendersi che a tentare di scappare. Lui è furibondo e deciso; le infila un coltello di almeno 15 centimetri di lunghezza e due di larghezza nel petto e nell’addome e nel collo. I colpi sono 33 o 44, ma poco conta: quelli mortali sono 7 e il numero alto indica soltanto l’energia e il desiderio di uccidere in questo caso rinforzato dalle difese di lei che prolungano la volontà di ammazzamento calda, bollente, decisa.
In criminologia si definisce overkilling e si inserisce tra i delitti passionali (passione non significa della sfera affettiva specifica verso quella persona) con o senza intenzione di violenza sessuale. Che infatti non c’è stata e nemmeno tentata. E sarebbe più corretto deinirlo delitto pulsionale.
Le indagini hanno cercato di capire soprattutto due cose; come è uscito di lì, senza farsi vedere da nessuno, l’assassino? E come ha potuto uscire imbrattato di sangue?
Che lo fosse pare evidente: le ferite di Simonetta sono numerose, profonde alcune e superficiali altre, e hanno prodotto moltissimo sangue, sicuramente anche a schizzo. I movimenti della ragazza inoltre, hanno comportato anche quelli dell’assassino che cercava di colpire con un coltello da subito scivoloso essendo il sangue vischioso. E’ parso evidente subito che l’assassino si debba essere ferito alle mani a sua volta proprio per i numerosi colpi inferti a un soggetto in rapido e continuo movimento e per la scivolosità del coltello che inpugnava. Motivo di più per non capire come abbia pensato di uscire senza essere notato e, addirittura, senza lasciare sgocciolamenti ovunque. In effetti le ricostruzioni su questi punti sono davvero lacunose; sembra quasi che non sia stata rilevata nessuna traccia di sangue, nè orme insanguinate, dall’ammezzato all’uscita, neppure sui gradini. Cosa quasi impossibile. Si è trovato però una cosa ben peggiore, per un assassino così fortunato o preparato a non essere visto da nessuno: sulla porta del bagno, esternamente, c’era una manata interpretata come quella di uno che si appoggia per vedere se passa qualcuno prima di fuggire. Quella manata indica il gruppo sanguigno e l’altezza del killer; sopra l’1,80. A quell’epoca non era facile trovare altezze simili. Forse solo in alcune zone d’Italia, i nati tra il 30 e il 50 (ipotizzo un’età plausibile, essendo il 1971), avevano genitori alti. La maggior parte era al Nord. Ma la maggior parte non è accettabile come ricerca di possibile killer. Il gruppo sanguigno è stato definito comune, e perciò si intende il gruppo A. Il dna non era possibile trovarlo all’epoca, perciò restava l’uso del cervello e il controllo degli alibi: ben 350 persone sono state convocate e controllate. Niente. O niente allora.
L’università chiude. Tutti escono. Nessuno usa i bagni. Nessuno sa che lì c’è stata una lotta ed ora è un mattatoio con un cadavere nel mezzo.
Ore 8,45 di lunedi mattina, due giorni dopo. Una ragazza appena arrivata forse da fuori Milano, sale all’ammezzato ed entra in bagno. La maniglia della porta è sporca, è sangue rappreso, ma la ragazza non lo sa e la apre lo stesso. Vede Simonetta a terra rannicchiata e un disastro tutto intorno a lei e sui muri. Scappa e va dal portiere di corsa. Il portiere chiama la polizia. Al pomeriggio si presenta un seminarista di 21 anni che viene da ìl Monferrato, esattamente dal seminario di Mirabello dei salesiani di don Bosco dove vive. Racconta una strana storia:
Questa mattina sono andato in Cattolica, dove sono iscritto a Filosofia, per controllare la posta in ufficio posto nel corpo G, e passando sulla scala ho sentito provenire un rumore di scroscio d’acqua da una porta. In seminario mi hanno abituato a non sprecare nulla e perciò ho deciso di andare a chiudere quel rubinetto. Ho visto il corpo e preso dal panico sono scappato. Ho preso il treno e sono tornato in Monferrato.
Il seminarista si chiama Mario Toso, ha 21 anni ed è nato a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso. Presumendo che sia stato iscritto a Filosofia da due anni, la prima incongruenza è che nel suo curriculum, corposo, che si trova in internet, la sua laurea è del 1978.
La polizia di lui sospetta, ovviamente. Dice di avere trovato il cadavere, dice di essere scappato, e nemmeno a farlo apposta, quel seminario salesiano, come scuola superiore, è stato frequentato anche da Simonetta. I due però hanno 5 anni di differenza e non potevano conoscersi.
Il capo della Mobile Enzo Caracciolo rumina come i cavalli: che diavolo ci faceva in un bagno femminile un maschio e per di più futuro prete?
L’avvocato di Toso sostiene due cose, quasi inattaccabili: non ha ferite da taglio alle mani nè macchie sui vestiti, che sono gli stessi che indossava.
Sì, ma quando? Sabato? E chi poteva dirlo? E come vestivano i salesiani allora?
Toso vene ordinato prete nel 1978, giusto l’anno della sua laurea.
La polizia che è certa delle ferite che l’assassino dovrebbe avere riportato, non trova nulla a suo carico. E non verrà mai più disturbato.
Mario Toso farà una carriera di tutto rispetto nella Chiesa. Dopo la laurea alla Cattolica ne prende un’altra a Roma, in Teologia e inizia a insegnare Filosofia all’Università Pontificia salesiana. Resta a Roma fino al 2015. Benedetto XVI lo ordina vescovo nel 2009 e intanto ricopre la carica di segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (dal 2009 al 2015). Collabora alla stesura del Cariras in Veritate del Papa.
Ne 2015 Papa Bergoglio lo manda nella diocesi di Faenza Modigliana, in Emilia, 120 mila fedeli, dove si trova tuttora.
Da dove è fugguto l’assassino quella mattina di 48 anni fa?
Si è sempre ipotizzato dal portone centrale. Il portiere, che dice di non averlo visto, o non aver visto nessun sospetto, non è affidabile: io stessa sono entrata due giorni fa (ma anche molte altre volte nel passato) e stava parlando con alcune persone. Eppure le lezioni sono finite e non si sa bene cosa ci stia a fare un portiere che lascia entrare persone adulte che non conosce come professori. Nessuno però ha ipotizzato, per lo meno dalle ricostruzioni che ho trovato, che potesse essere uscito, e magari anche entrato, dal cancello secondario, subito dopo il cortile, che sfocia sulla piccola via San Pio V che si snoda poi in via Lanzone, vecchia Milano medioevale dove passano pochissime persone anche nei giorni feriali. Se il cancello fosse stato chiuso (ma chissà), non era impossibile scavalcare o conoscere punti facili per farlo. Già. Ma come la mettiamo con i vestiti insanguinati? Una ipotesi è che si sia coperto con qualcosa di lungo (e non certo come ho letto, che potesse essere nudo durante l’omicidio o che si sia cambiato proprio in quel bagno!). E le ferite alle mani? Se avesse avuto i guanti spessi li avrebbe tenuti anche prima di uscire e mai avrebbe lasciato l’impronta della mano sulla porta. Ma siamo sicuri che si è ferito alle mani solo perché tutto lo lascia presupporre?
Questo è un omicidio premeditato.
Uno che si porta un coltello di 15 o 20 centimetri da casa ha previsto di usarlo. E di usarlo contro una ragazza.
E il movente?
Rabbia, rancore, narcisismo, psicopatia. Bisogno di fare del male, molto e molto, per vendicare il proprio male patito o immaginato. O per un conflitto insopportabile che deve sfogare nel peggiore dei modi.
E Simonetta?
Vittima a caso, ma non del tutto. Vittima in università, in un bagno e donna. Perché? Perchè parrebbe luogo conosciuto dal killer, perché le ragazze sono bersagli favoriti dagli psicopatici e il bagno implica sopresa e vulnerabilità superiore al normale e luogo nascosto ai più. Chi uccide scegliendo di uccidere non lo fa in piazza (o in un cortile universitario). Si nasconde perché non vuole essere preso. E infatti è andata esattamente così.
Il killer è perciò un vigliacco capace di grandi cose (narcisista) che sa tornare sul luogo sul delitto e poi compensarsi senza uccidere mai più. E senza mai venire allo scoperto.
Il capo della Mobile rimuginò su quel ragazzo quasi prete che raccontò di essere entrato nel bagno femminile per chiudere un rubinetto senza preoccuparsi dell’imbarazzo, e poi di avere avuto paura e non pietà di fronte a un corpo martoriato.
Ipotesi. Suffragate dal nulla.
Bruna Bianchi, giornalista
Milano
(Grazie alla dottoressa Malke Ursula Franco, criminologa, per le spiegazioni scientifiche)
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luglio 24, 2018
Categorie: delitto, femminicidio, psicologia . Tag:1971, 48 anni dopo, Cold case, Il delitto della Cattolica, Milano, Milano nera, nera, Simonetta Ferrero . Autore: brunabianchi . Comments: 9 commenti