Marzo 1978, la paura di Milano

TRA COVO BR E DUE RAGAZZI ANTIFASCISTI UCCISI

Il rapimento di Aldo Moro dopo la prima ora di sgomento e le altre tre di protesta spontanea di tutta l’Italia, diventa subito, lontano dal popolo e dalle sue orecchie, una vicenda spinosa. Che le Brigate Rosse non si sarebbero accontentate di qualche uomo di potere, da quel 1970 di un bar di Reggio Emilia dove fecero un patto di rovesciamento dello Stato di allora, era immaginabile. Non ripercorrerò inutilmente le vicende di quegli anni e neppure il sequestro dello statista terminato in una prevista tragedia dopo 55 giorni. Ripercorro invece, da milanese, e oggi da giornalista, quanto accadde due giorni dopo: la brutta fine di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, due studenti di 18 anni e mezzo.

Il loro assassinio, apparentemente, non è stato diverso da quello di Claudio Varalli e di Giannino Zibecchi, di Saverio Saltarelli oppure di Roberto Franceschi. Erano tutti ragazzi e tutti impegnati a Milano nell’estrema sinistra divisa in tante sigle diverse ma unita dai centri di aggregazione nei quartieri. Erano 50 allora, piccole o grandi occupazioni di fabbriche dismesse. La più imponente, nel 1975, fu quella dell’ex farmaceutica di via Leoncavallo, poco distante da Loreto, nel quartiere Casoretto. Il Casoretto era stata una frazione del comune di Lambrate prima che questo si unisse alla città, ed era composto da gente di bassa estrazione sociale in parte, e in parte di piccola borghesia. Le sue case lo raccontano ancora oggi. Qui erano cresciuti Fausto e Iaio e nella parrocchia di Santa Maria andavano a giocare all’oratorio. Il sacrestano se lo ricorda bene il parroco che accorse ad accarezzare la testa di Iaio; a mormorare parole sconvolte alle 8 di quel 18 marzo 1978. Accadde tutto davanti alla porta di ferro sberciato, la stessa che c’è oggi, che rinchiude il cortile della grande canonica. A quel tempo, a piano terra dell’edificio attiguo alla chiesa, c’era una scuola americana, a quell’ora chiusa. Sulla sinistra invece c’era una palazzina, la prima di via Mancinelli, dove allora alloggiavano i sacerdoti e persone con disabilità mentale. Oggi li vedi in cortile a fumare, nascosti dal muro di cinta che rende la via Mancinelli allora come oggi luogo perfetto per un agguato mortale. Di fronte alla canonica (dove ora c’è un centro di ascolto e varie attività per l’associazione dell’autismo), c’è il lungo muro (lungo tutta la strada, cioè quasi 400 metri) del deposito dei tram. Su questo muro, proprio in faccia a quel portone sberciato, i ragazzi del liceo atistico di Fausto Tinelli avevano fatto un grande murales e nel 2017 lo hanno rifatto daccapo sbiadendo il colore rosso dei garofani. Domenica saranno 40 anni da quella sera.

Fausto e Iaio, racconta la cronaca minuziosa di diverse indagini e tante testimonianze, si sono trovati in via Leoncavallo poco dopo le 19 e 30. Non al Centro, che si stava preparando per la serata di festa con musica (era sabato), ma di fronte, al bar dei panini a prezzi, allora, accessibili anche agli studenti. Da lì hanno percorso la via Lambrate che scende in linea retta verso la via Casoretto. A coloro i quali quel percorso è parso strano, io dico no, non lo era: quel locale era (oggi non c’è più, ma esiste ancora altrove) proprio di fronte alla via Lambrate: bastava attraversare la via Leoncavallo. I ragazzi erano attesi a casa di Fausto per una cena veloce, in via Monte Nevoso, un chilometro e mezzo di strada a piedi verso la periferia e al confine con la ferrovia. Quel 18 marzo il nome della via diceva qualcosa solo a chi c’è andato per scrivere sul muro di casa di Fausto, una bella casetta di quattro piani degli anni ’40: il Casoretto si chiude col piombo. Il riferimento era al collettivo Casoretto, anzi la banda, come venne soprannominata dalla sinistra più intellettuale della Statale, che i ragazzi frequentavano, così come frequentavano anche Radio Popolare allora in scalcinati locali di una altrettanta scalcinata via Pasteur. Via Monte Nevoso diventerà molto, molto famosa, solo il primo ottobre di quello stesso anno, quando gli uomini del generale Dalla Chiesa fecero irruzione nel covo milanese delle Brigate Rosse che conteneva le carte segrete del rapimento Moro.

I ragazzi, quella sera, fecero un percorso corretto fino all’edicola dei giornali che stava chiudendo. Li ricorda bene il titolare, perché li vide e sentì commentare le notizie del recentissimo rapimento Moro. Dall’edicola di via Casoretto i due sarebbero dovuti proseguire per tutta la via fino in fondo per poi svoltare a destra e imboccare la corta via Monte Nevoso che costeggia il muro della ferrovia. Invece non andò così, e questo è un dei primi misteri di un duplice omicidio che ha avuto sì sospettati, ma mai colpevoli da processare e condannare. La ricostruzione del luogo della sparatoria perciò si basa solo su deduzioni: dall’edicola occorrono due minuti per raggiungere il punto esatto (di fronte al portone della canonica) dove Fausto e Iaio sono caduti a terra con otto colpi addosso, cinque a uno e tre all’altro. Se i ragazzi dovevano andare a casa di Fausto e perciò restare su via Casoretto, cosa li ha portati fin lì? Avrebbero visto qualcosa che li ha richiamati. Cosa? Hanno sicuramente visto tre ragazzi, che erano già lì, tutti e tre abbigliati alla moda che allora si diceva alla sanbabilina o alla destra romana: spolverino chiaro o giubbotto. Come erano effettivamente vestiti li descrivono i testimoni che li hanno visti prima uccidere e poi scappare. Uno di loro però lascia a terra un cappellino blu intriso del sangue di uno dei ragazzi. Quel cappellino così prezioso che conteneva il dna però è scomparso nei faldoni della scientifica, vuoi per faciloneria, vuoi perchè allora il dna non si poteva ancora trovare. Il fatto che sia caduto addosso a uno dei corpi potrebbe indicare che non tutto è stato così perfettamente calcolato e non si può escludere a priori, come è stato fatto, che uno dei ragazzi abbia dato una manata al suo aggressore prima che questi gli sparasse. Gli otto colpi in sequenza hanno avuto una testimone scomoda, scomodissima: lei sostiene di essere stata a sei metri di distanza, con le sue due figlie, e ha visto tutta la scena. Ora, sei metri sono davvero pochi e diventano pochissimi in una via totalmente deserta, al buio, costeggiata in quel punto in entrambi i lati da muri. Ancora più strano è che la donna raccontò di avere visto i tre allontanarsi verso la fine della via Mancinelli, cioè all’imbocco della via Leoncavallo ed esattamente dove iniziano le rotaie per le uscite dei tram dalla grande rimessa. In tutto, gli assassini hanno percorso 350 metri a piedi circa senza curarsi di essere visti (e tenuti a mente) o fermati da qualcuno che almeno in auto avrebbe potuto passare di lì. Questo particolare non è di poco conto per un duplice omicidio rivendicato dai Nar, una delle più crudeli organizzazioni dell’estrema destra romana composta da fior di delinquenti che maneggiavano le armi da veri professionsti, e per di più per sicari venuti appositamente in trasferta.

Infatti, la donna che poi testimonierà ai poliziotti accorsi velocemente sul posto, dirà che quello che ha sparato aveva un sacchetto di plastica in mano e la pistola dentro il sacchetto: ha così raccolto i bossoli ed evitato il rumore della deflagrazione. La rivendicazione è giunta 4 giorni dopo all’Ansa di Roma, a funerali avvenuti: è la banda Prati dei Nar, brigata combattenti Anselmi. Anselmi era un esponente dei Nar ucciso pochi giorni prima durante una rapina da un gioielliere. Ma perchè uccidere due ragazzi di sinistra di un quartiere a Milano e non un poliziotto a Roma, per vendicarsi? Il nome dell’assassino di Fausto e Iaio si saprà molti e molti anni dopo grazie a frasi e racconti messi insieme da esponenti di destra arrestati (e malavita romana e veneta) e fatti sapere agli inquirenti: Mario Corsi detto Marione, è lui l’assassino. Lo deve ammettere anche il giudice Clementina Forleo che però nel 2000 archivia il faldone perchè non ha nessuna prova in mano. Benchè le prove non ci sono mai state, ci sono invece stati tantissimi indizi tutti collegati l’uno all’altro o facilmente collegabili per gli esponenti che allora ruotavano sulla scena, dalle bande milanesi Turatello e Vallanzasca a quelle romane della Magliana, le une e le altre legate all’estrema destra quando occorreva.

Due ragazzi qualunque, un pochino più in vista di altri, che però mai hanno mandato nessuno al creatore della fazione opposta nè erano noti picchiatori o di qualsivoglia servizio d’ordine, diventano di colpo e per forza “due di noi” in una Milano sempre più attonita e impaurita ma storicamente ribelle e, nelle periferie, ancora fortemente operaia. Ed è così che al funerale, nella medioevale chiesa di Casoretto, accorreranno in 100mila. Un numero da capogiro che nessun omicidio politico a Milano, pur frequente in quegli anni, era riuscito a mettere insieme. Come mai? La spiegazione arriverà non più dalle percezioni personali e collettive di quei giorni ma da chi, in quei giorni, ha subito cercato una spiegazione che andasse oltre la logica, pur conosciuta, della vendetta. La prima, quella adotta dai Nar, non escludeva la seconda, più milanese e legata proprio all’odio verso la sinistra del Casoretto: l’uccisione di Ramelli, giovane di destra dichiarata, missino e ben convinto di lottare per la destra al Molinari, scuola, invece, di figli di operai. Mettendosi così in mostra e venendo da una zona (porta Venezia) tutt’altro che di sinistra (qui venne ucciso l’avvocato Pedenovi e qui abitava e abita ancora La Russa). Ramelli si era beccato una lezione a sprangate che purtroppo fu troppo pesante e lo lasciò agonizzante fino alla morte sopraggiunta molti giorni dopo. La morte di Sergio Ramelli, anch’egli 18enne, segnò un momento di altissima conflittualità nella destra missina e soprattutto i giovani della destra anche loro riuniti in diversi movimenti estremi che mai hanno scordato, più che il ragazzo morto, l’affronto nella zona che ritenevano territorio intoccabile. E così l’hanno giurata a quell’ Andrea Bellini leader del Casoretto ritenuto lo sprangatore di Ramelli, che l’anno successivo (1979) tentarono di uccidere senza riuscirci. L’omicidio di Fausto e Iaio, benchè apertamente rivendicato e confermato da esponenti di destra romani (ma non dall’accusato Mario Corsi) sarebbe potuto rientrare più logicamente in una vendetta contro ragazzi del Casoretto in attesa di far fuori il capo vero, cioè Bellini.

Ma perchè i Nar sarebbero addirittura venuti da Roma per uccidere?

La ricostruzione dell’indagine indica la presenza dell’esponente Mario Corsi a Cremona, dove, in casa sua, venne ritrovata una pistola compatibile con quella che aveva sparato in via Mancinelli, nonchè fotografie dei ragazzi pubblicate dai giornali dopo l’esecuzione. Nonostante questo, Corsi non venne indagato per la loro morte.

Le testimonianze di quella sera di marzo nelle vie attorno a quella del delitto portò successivamente a fare emergere una storia ancor più misteriosa. Una coppia disse di avere notato una moto Kawasaki con la targa coperta, fermarsi davanti a una pizzeria e vide il passeggero scendere e togliere la copertura della targa. L’orario è compatibile con la fuga dal delitto appena commesso in via Mancinelli e il percorso anche (via Porpora). Non lo è invece il farsi spudoratamente vedere in giro in zona dopo un duplice omicidio andando addirittura a mangiare la pizza. Però quella pista non venne affatto tralasciata dalla questura di Milano che, grazie all’uomo che annotò addirittura un pezzo di targa, si scoprì che la moto era intestata a un certo Gaetano Russo fino al 16 marzo 1978 e poi ad Antonio Ausilio, un brutto ceffo diciottenne già accusato di tentato omcidio. Questa pista venne abbandonata, ma oggi, rileggendo le date e le misteriose coincidenze, è difficile dividere il covo aperto per il rapimento Moro nella stessa via della casa di Fausto Tinelli da questa moto in uso a quel tempo alla destra o alla malavita che a Milano come a Roma o come a Verona e Treviso hanno dimostrato di essere spesso unite per un unico scopo: soldi e potere e rovesciamento dei poteri.

Il 31 agosto dello stesso anno, durante la caccia aperta ai terroristi assassini di Moro, il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, comunica al generale Alberto Dalla Chiesa di avere scoperto un covo delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso numero 9. Un caso fortuito. A Firenze, durante controlli a tappeto che allora si svolgevano in tutte le città, un carabinere aveva trovato su un bus di linea un borsello abbandonato. L’aveva lasciato lì, appena adocchiati i carabinieri, Azzolini, uno dei rapitori di Moro e responsabile milanese del covo di via Monte Nevoso. Molto ingenuamente Azzolini aveva lasciato nel borsello alcune “briciole” di Pollicino che i militari seguirono fino a Milano ed esattamente nel quartiere Casoretto. Di più: trovarono la chiave di un portone e per diverse notti provarono in quale casa s’infilava. Finché entrò nella toppa giusta.

L’irruzione però avvenne solo il primo ottobre e quello che si trovò lì dentro, oltre ai brigatisti, è storia di misteri d’Italia, di colpe politiche e umane. E di Gladio.

Nessuno dei militari di Dalla Chiesa collegò il nome di quella via con l’abitazione del giovane ucciso in via Mancinelli solo pochi mesi prima, ma proprio nella casa di Tinelli (che era dirimpettaia) da fine agosto al giorno dell’irruzione, il generale piazzò in un appartamento preso in affitto, uomini specialisti nel servizio di controllo, pedinamento e vigilanza. Dalla Chiesa li voleva prendere tutti i brigatisti, e possibilmente tutti insieme.

Districarsi tra nomi della malavita, servizi segreti, Brigate Rosse, neofascisti romani e milanesi, non è facile. In questa vicenda irrisolta, l’unica certezza è che se anche ci fosse stato un piano di destabilizzazione di Milano (per spostare l’attenzione o per potere emanare meglio dure leggi speciali durante l’emergenza del rapimento Moro) nell’immediato il piano non è riuscito per la fortissima risposta che Milano ha dato, spontaneamente, proprio al funerale dei ragazzi al Casoretto. “Due come noi” diceva tutto: non era una lotta tra bande e nemmeno sprangate reciproche e figuriamoci pistolettate. Due come noi, ha unito tutta la sinistra democratica di Milano in un’onda oceanica che non solo quel giorno, ma che per 40 anni non ha mai scordato i suoi ragazzi finiti in qualcosa più grande di loro.

Nel giro di un anno a Milano iniziò a sfaldarsi la coesione della pur divisa sinistra extraparlamentare e la voglia di lottare contro poteri troppo forti subì contraccolpi enormi. Il piano, dunque, aveva vinto. I primi anni ’80 il Centro Leoncavallo aveva già cambiato faccia e l’entusiasmo dei ragazzi che lo frequentavano si era spento. Il Centro però riuscì a rimanere in piedi e attivo e quando arrivarono le ruspe, anche ad ottenere la sede di via Watteau, altro quartiere, altra storia.

Inutile dirlo: per Moro o per Fausto e Iaio – o per tutti e tre – niente da quel marzo 1978 è stato più lo stesso.

(le foto sono sulla pagina Facebook Bruna Bianchi Giornalista)

Preveggenza o indagine?

Che strage avrebbe potuto fare in Italia Amri? Le parole del questore di  Milano non hanno avuto (finora) nessun riscontro. L’unico vero riscontro, piuttosto ritardatario, viene dai servizi dell’intelligence del Marocco che avrebbe lanciato l’allerta alla Germania a settembre ed ottobre proprio su di lui, il tunisino che era talmente pericoloso (e questo è un fatto assodato perché la strage l’ha compiuta davvero)  e ricercato (questa è una menzogna perché chi cerca trova, visto che era conosciuto come spacciatore di droga a Berlino da agosto) e peggio ancora dopo la strage, mentre si faceva selfie e inviava video in pieno giorno di fianco alla Sprea, il fiume berlinese.

Ieri mattina ho indagato da sola (come sto facendo dal primo giorno della strage a Berlino, città che conosco bene) , senza il supporto di nessuna notizia della polizia, né dei colleghi. Oggi devo correggere alcune informazioni ufficiali che ieri non potevo sapere: il tunisino è partito in treno via Francia e a Torino ha cambiato con un regionale per raggiungere Milano stazione di Porta Garibaldi dove è arrivato intorno alle 9 di sera di giovedì. Da qua si è spostato (a piedi) alla Centrale dove ha cercato, inutilmente, un treno per proseguire la sua fuga, di destinazione sconosciuta. Dalla stazione Centrale, che ha lasciato intorno all’1 di notte (cioè alla chiusura della stessa) si è spostato a quella di Sesto San Giovanni, distante circa 4 chilometri. Forse ha preso un bus notturno, giungendovi pochi minuti prima delle 3. Dieci minuti dopo è stato visto nella piazza dalla pattuglia di polizia che gli ha chiesto i documenti per un normale controllo e ne è scaturita la sparatoria che l’ha ucciso. Non ha gridato Allah, ma poliziotti bastardi. Indossava due paia di pantaloni, segno che ha dormito all’aperto, su treni  o in ripari di fortuna (quindi senza appoggi)  da lunedì a giovedì notte alle 3. Nel suo zaino c’erano soldi (tra i 150 e i 400 euro) un cellulare con batteria scarica, spazzolino e dentifricio. Non aveva documenti né foglietti con nomi e luoghi utili a qualcosa. Aveva, naturalmente, la pistola con la quale aveva ucciso l’autista polacco e che ha usato contro gli agenti, ferendone uno. Ieri ho scritto nel post precedente a questo che da quella piazza partono pullman con destinazione Marocco, ma oggi ho saputo che quella è l’unica destinazione notturna, mentre di giorno ce ne sono altre, Tunisia compresa. Il pullman per il Marocco attraversa Milano e si ferma anche a Lampugnano prima di prendere l’autostrada per Torino. Questo indicherebbe che Amri non era a conoscenza né di orari né di percorsi. Ma in quella piazza davanti alla stazione non c’è giunto a caso. O sapeva dell’esistenza di quella stazione e ha tentato di prendere da lì un altro treno notturno, o voleva prendere il bus per allontanarsi comunque dall’Italia. Una ipotesi potrebbe essere il passaggio di parola tra extracomunitari in stazione Centrale a Milano ai quali potrebbe aver chiesto come raggiungere con pullman o treni la sua destinazione finale o anche una qualsiasi, pur di allontanarsi velocemente da ogni luogo (cioè senza sapere bene dove andare , ma sicuro di dover fuggire e quindi restare in movimento). L’altra ipotesi è che lì ci fosse già stato e sapeva della partenza dei pullman notturni, ma è arrivato tardi ed è stato notato proprio appena arrivato perché non sapeva cosa fare né dove andare.

La mia teoria, personalissima e non suffragata da alcune fonti ufficiali, che la vicenda della strage di Berlino sia iniziata a Cinisello (un chilometro e mezzo dalla stazione di Sesto) è si sarebbe conclusa nella stessa zona è stata condivisa con un collega per telefono tre giorni fa. Nessun elemento sufficiente per poter scriverne sul giornali, solo una sorta di intuizione, quelle che nascono dalle investigazioni ossessive: controllo dei percorsi, degli orari, delle abitudini, conoscenza dei luoghi e di tutte le informazioni a disposizione più altre recuperate dalla gente (chiunque, passanti, extracomunitari, baristi, ecc.) e la psicologia che è sempre fondamentale per capire i comportamenti umani di chi delinque, molto più della politica italiana od estera.  La verità è che il terrorista è stato freddato (senza sapere che di lui si trattasse, vicinissimo all’ultima sosta del tir che ha poi usato per la strage del mercatino d Berlino. Trovare un Tir da usare non è facile. Corrompere con soldi (ben difficile sequestrare un autista grande e grosso anche solo per 4 ore e tenerselo al fianco non legato o ucciso) un autista per farsi portare fino a Berlino, nei pressi di un luogo già scoperto precedentemente per la strage da compiere è relativamente facile se si sa come fare e dove trovare Tir giusto e autista disposto a farsi pagare per il passaggio. Potrebbe essere andata così a Berlino: Amri avrebbe provato a guidare il camion alle 16 e 30, inventandosi di voler imparare. Diverse sono le accensioni (da fermo) registrate dal gps. L’ultima, alle 19 e 45, è invece una partenza in piena regola che in 17 minuti piomba nella piazza. Forse guidava lui, mentre il polacco al fianco ignaro di essersi fatto amico un terrorista, si è accorto solo all’ultimo momento di quello che stava accadendo e ha sterzato beccandosi coltellate di rimando. Se l’incontro e l’accordo di viaggio tra i due non c’è mai stato ed è stato tutto casuale l’inizio e la fine tra Sesto e Cinisello, come sostiene la polizia italiana, sono pronta a smentire la teoria. Comunque non si spiega come io abbia potuto prevederlo.

 

FINE DI UN TERRORISTA, RESTA IL MISTERO

Amri Anis, 24 anni, ha lasciato di sé solo una grande chiazza di sangue nella piazza I maggio davanti alla stazione di Sesto, al confine con Cinisello e a tre fermate di metropolitana da Milano. L’altro sangue che ha versato consapevolmente a Berlino è stata una vendetta atroce, e di morire l’ha messo in conto. Ma sperava di vivere.

Cosa ci faceva nella deserta piazza periferica in Italia alle 3 di notte dove l’hanno trovato due agenti di polizia?  Due ipotesi: aspettava qualcuno che tardava ad arrivare, o stava pensando cosa fare dopo aver perso il pullman per Marrakesh (Marocco) che ogni notte alle 2,16 minuti parte da quella piazza. Veniva dalla Francia in treno. Anzi, veniva da Berlino, da dove deve essere fuggito senza troppi problemi nonostante la caccia all’uomo (una “caccia” che continuava tra arresti, carcere, rilasci, ospitalità, fermi, ecc. dal 2011 tra Italia e Germania) e deve aver preso un treno e aver fatto sosta in un altro paese, la Francia.

Due controlli di frontiera evasi da un supericercato. E tre con l’ingresso in Italia e arrivo alla stazione Centrale all’1 di notte di venerdì. Da qui aveva poca scelta: la stazione chiude e lui era ricercato. Dove poteva andare? In un luogo che già conosceva…che guarda caso è giusto a un chilometro e mezzo dalla Omm, macchine industriali per lavaggi di pavimenti di via Cantù a Cinisello Balsamo, due passi dietro l’entrata e uscita dell’autostrada che venerdì scorso ha percorso l’autista polacco. Quale camionista preleverebbe merce il venerdì alle 12 per andare a scaricare a Berlino solo il lunedì e senza nemmeno avvisare l’azienda che infatti non lo fa scaricare perché non era previsto quel giorno? I viaggi costano, i camion fermi costano. Qualcosa non quadra…

Si mormora, ma nemmeno tanto sottovoce, che tra i due (tunisino e polacco) ci fosse una sorta di accordo di viaggio. Che ci faceva però il tunisino a Cinisello? Sappiamo con certezza che lì l’hanno ammazzato e perciò la coincidenza non è più coincidenza. La logica suggerisce che conoscesse quel luogo e non per averlo visto una sola volta. Amri è un lupo solitario, un antisociale già nel suo paese da ragazzino. E’ rabbioso, aggressivo. Segue sul barcone fino a Lampedusa alcuni parenti, ma altri restano in Tunisia, il padre e una sorella. E’ il 2011, si fugge dalla primavera araba che semina morte ma Amir è un fuggitivo di natura e la sua natura aggressiva lo fa finire in carcere che non ha nemmeno 18 anni. A Palermo, all’Ucciardone, ha comportamenti degni di nota per 4 anni. Viene segnalato ovunque, descritto bene e non ha fede religiosa. Infatti Allah verrà a trovarlo dopo un anno, nella sua testa paranoide. Come molti cani sciolti che inneggiano all’Isis e che hanno contatti via internet soltanto dall’Europa, anche Amri diventa fanatico: è come se avesse trovato finalmente un motivo per scaricare la sua rabbia vendicativa. La sua strage è facile, molto più facile di quella di Nizza. Conosce Berlino, è lì che spaccia droga nei parchi. E conosceva l’Italia. Teoricamente dell’Italia ha visto solo carceri e campi di prima accoglienza, in realtà il tunisino dimostra di sapersi muovere. Come? Arrivando a Milano da solo, con una piccola pistola in tasca, senza documenti e dalla stazione arrivando probabilmente a piedi a quella di Sesto in circa un’ora. Non ha telefono, non ha soldi. Solo (a parte il polacco) era sul camion che ha ucciso 12 persone e solo è morto in una piazza deserta. Nessun testimone, nemmeno gli extracomunitari sbandati che di notte dormono dentro la stazione.

Chi guidava il camion a Berlino? Il polacco. Perché è stata dichiarata un’assurdità? Il polacco non aveva nemmeno idea di dover guidare un camion per fare una strage e perciò perché sporcare la sua memoria? Il polacco, con tutta probabilità, dava una mano a passare i confini. E’ una mia ipotesi, ma mi sembra la più logica. Nessun terrorista potrebbe guidare un camion senza dichiarare la reale destinazione e tenere a bada l’autista accanto che ha le mani libere, tant’è vero che il pover’uomo sterza forzatamente quando capisce cosa sta realmente accadendo e viene ferito a coltellate. Ma verrà ucciso con la pistola solo a camion fermo. Amri deve uccidere, ma non necessariamente morire. Non è un kamikaze, non è un martire di Allah. E’ durante la fuga da Berlino che lancia lo sberleffo col video, nemmeno tanto lontano dalla strage, il giorno successivo (è giorno, non notte!) e dice soddisfatto che ce l’ha fatta non ad ammazzare ma a restare vivo. La fuga dalla Germania è lenta, normale diremmo, perché il vero allarme è scattato solo a parole: nessuno l’ha fermato nei luoghi più ovvi per tutti i fuggitivi solitari: i treni. E’ così giunto nel luogo che conosceva per andare in un altro (forse in modo confuso) che lo portasse lontano. In Italia? Assurdo. A mio parere voleva tornare a casa sua, in Tunisia (via Marocco).  Oggi ho visto gente indifferente, che non commentava, non era curiosa, né dispiaciuta né contenta. E nemmeno percepiva il pericolo scampato. Sembra tutto un film e in effetti credo che lo sia. I  morti ( chiunque essi siano) sono cronaca: domani è un altro giorno.

 

 

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