TRA COVO BR E DUE RAGAZZI ANTIFASCISTI UCCISI
Il rapimento di Aldo Moro dopo la prima ora di sgomento e le altre tre di protesta spontanea di tutta l’Italia, diventa subito, lontano dal popolo e dalle sue orecchie, una vicenda spinosa. Che le Brigate Rosse non si sarebbero accontentate di qualche uomo di potere, da quel 1970 di un bar di Reggio Emilia dove fecero un patto di rovesciamento dello Stato di allora, era immaginabile. Non ripercorrerò inutilmente le vicende di quegli anni e neppure il sequestro dello statista terminato in una prevista tragedia dopo 55 giorni. Ripercorro invece, da milanese, e oggi da giornalista, quanto accadde due giorni dopo: la brutta fine di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, due studenti di 18 anni e mezzo.
Il loro assassinio, apparentemente, non è stato diverso da quello di Claudio Varalli e di Giannino Zibecchi, di Saverio Saltarelli oppure di Roberto Franceschi. Erano tutti ragazzi e tutti impegnati a Milano nell’estrema sinistra divisa in tante sigle diverse ma unita dai centri di aggregazione nei quartieri. Erano 50 allora, piccole o grandi occupazioni di fabbriche dismesse. La più imponente, nel 1975, fu quella dell’ex farmaceutica di via Leoncavallo, poco distante da Loreto, nel quartiere Casoretto. Il Casoretto era stata una frazione del comune di Lambrate prima che questo si unisse alla città, ed era composto da gente di bassa estrazione sociale in parte, e in parte di piccola borghesia. Le sue case lo raccontano ancora oggi. Qui erano cresciuti Fausto e Iaio e nella parrocchia di Santa Maria andavano a giocare all’oratorio. Il sacrestano se lo ricorda bene il parroco che accorse ad accarezzare la testa di Iaio; a mormorare parole sconvolte alle 8 di quel 18 marzo 1978. Accadde tutto davanti alla porta di ferro sberciato, la stessa che c’è oggi, che rinchiude il cortile della grande canonica. A quel tempo, a piano terra dell’edificio attiguo alla chiesa, c’era una scuola americana, a quell’ora chiusa. Sulla sinistra invece c’era una palazzina, la prima di via Mancinelli, dove allora alloggiavano i sacerdoti e persone con disabilità mentale. Oggi li vedi in cortile a fumare, nascosti dal muro di cinta che rende la via Mancinelli allora come oggi luogo perfetto per un agguato mortale. Di fronte alla canonica (dove ora c’è un centro di ascolto e varie attività per l’associazione dell’autismo), c’è il lungo muro (lungo tutta la strada, cioè quasi 400 metri) del deposito dei tram. Su questo muro, proprio in faccia a quel portone sberciato, i ragazzi del liceo atistico di Fausto Tinelli avevano fatto un grande murales e nel 2017 lo hanno rifatto daccapo sbiadendo il colore rosso dei garofani. Domenica saranno 40 anni da quella sera.
Fausto e Iaio, racconta la cronaca minuziosa di diverse indagini e tante testimonianze, si sono trovati in via Leoncavallo poco dopo le 19 e 30. Non al Centro, che si stava preparando per la serata di festa con musica (era sabato), ma di fronte, al bar dei panini a prezzi, allora, accessibili anche agli studenti. Da lì hanno percorso la via Lambrate che scende in linea retta verso la via Casoretto. A coloro i quali quel percorso è parso strano, io dico no, non lo era: quel locale era (oggi non c’è più, ma esiste ancora altrove) proprio di fronte alla via Lambrate: bastava attraversare la via Leoncavallo. I ragazzi erano attesi a casa di Fausto per una cena veloce, in via Monte Nevoso, un chilometro e mezzo di strada a piedi verso la periferia e al confine con la ferrovia. Quel 18 marzo il nome della via diceva qualcosa solo a chi c’è andato per scrivere sul muro di casa di Fausto, una bella casetta di quattro piani degli anni ’40: il Casoretto si chiude col piombo. Il riferimento era al collettivo Casoretto, anzi la banda, come venne soprannominata dalla sinistra più intellettuale della Statale, che i ragazzi frequentavano, così come frequentavano anche Radio Popolare allora in scalcinati locali di una altrettanta scalcinata via Pasteur. Via Monte Nevoso diventerà molto, molto famosa, solo il primo ottobre di quello stesso anno, quando gli uomini del generale Dalla Chiesa fecero irruzione nel covo milanese delle Brigate Rosse che conteneva le carte segrete del rapimento Moro.
I ragazzi, quella sera, fecero un percorso corretto fino all’edicola dei giornali che stava chiudendo. Li ricorda bene il titolare, perché li vide e sentì commentare le notizie del recentissimo rapimento Moro. Dall’edicola di via Casoretto i due sarebbero dovuti proseguire per tutta la via fino in fondo per poi svoltare a destra e imboccare la corta via Monte Nevoso che costeggia il muro della ferrovia. Invece non andò così, e questo è un dei primi misteri di un duplice omicidio che ha avuto sì sospettati, ma mai colpevoli da processare e condannare. La ricostruzione del luogo della sparatoria perciò si basa solo su deduzioni: dall’edicola occorrono due minuti per raggiungere il punto esatto (di fronte al portone della canonica) dove Fausto e Iaio sono caduti a terra con otto colpi addosso, cinque a uno e tre all’altro. Se i ragazzi dovevano andare a casa di Fausto e perciò restare su via Casoretto, cosa li ha portati fin lì? Avrebbero visto qualcosa che li ha richiamati. Cosa? Hanno sicuramente visto tre ragazzi, che erano già lì, tutti e tre abbigliati alla moda che allora si diceva alla sanbabilina o alla destra romana: spolverino chiaro o giubbotto. Come erano effettivamente vestiti li descrivono i testimoni che li hanno visti prima uccidere e poi scappare. Uno di loro però lascia a terra un cappellino blu intriso del sangue di uno dei ragazzi. Quel cappellino così prezioso che conteneva il dna però è scomparso nei faldoni della scientifica, vuoi per faciloneria, vuoi perchè allora il dna non si poteva ancora trovare. Il fatto che sia caduto addosso a uno dei corpi potrebbe indicare che non tutto è stato così perfettamente calcolato e non si può escludere a priori, come è stato fatto, che uno dei ragazzi abbia dato una manata al suo aggressore prima che questi gli sparasse. Gli otto colpi in sequenza hanno avuto una testimone scomoda, scomodissima: lei sostiene di essere stata a sei metri di distanza, con le sue due figlie, e ha visto tutta la scena. Ora, sei metri sono davvero pochi e diventano pochissimi in una via totalmente deserta, al buio, costeggiata in quel punto in entrambi i lati da muri. Ancora più strano è che la donna raccontò di avere visto i tre allontanarsi verso la fine della via Mancinelli, cioè all’imbocco della via Leoncavallo ed esattamente dove iniziano le rotaie per le uscite dei tram dalla grande rimessa. In tutto, gli assassini hanno percorso 350 metri a piedi circa senza curarsi di essere visti (e tenuti a mente) o fermati da qualcuno che almeno in auto avrebbe potuto passare di lì. Questo particolare non è di poco conto per un duplice omicidio rivendicato dai Nar, una delle più crudeli organizzazioni dell’estrema destra romana composta da fior di delinquenti che maneggiavano le armi da veri professionsti, e per di più per sicari venuti appositamente in trasferta.
Infatti, la donna che poi testimonierà ai poliziotti accorsi velocemente sul posto, dirà che quello che ha sparato aveva un sacchetto di plastica in mano e la pistola dentro il sacchetto: ha così raccolto i bossoli ed evitato il rumore della deflagrazione. La rivendicazione è giunta 4 giorni dopo all’Ansa di Roma, a funerali avvenuti: è la banda Prati dei Nar, brigata combattenti Anselmi. Anselmi era un esponente dei Nar ucciso pochi giorni prima durante una rapina da un gioielliere. Ma perchè uccidere due ragazzi di sinistra di un quartiere a Milano e non un poliziotto a Roma, per vendicarsi? Il nome dell’assassino di Fausto e Iaio si saprà molti e molti anni dopo grazie a frasi e racconti messi insieme da esponenti di destra arrestati (e malavita romana e veneta) e fatti sapere agli inquirenti: Mario Corsi detto Marione, è lui l’assassino. Lo deve ammettere anche il giudice Clementina Forleo che però nel 2000 archivia il faldone perchè non ha nessuna prova in mano. Benchè le prove non ci sono mai state, ci sono invece stati tantissimi indizi tutti collegati l’uno all’altro o facilmente collegabili per gli esponenti che allora ruotavano sulla scena, dalle bande milanesi Turatello e Vallanzasca a quelle romane della Magliana, le une e le altre legate all’estrema destra quando occorreva.
Due ragazzi qualunque, un pochino più in vista di altri, che però mai hanno mandato nessuno al creatore della fazione opposta nè erano noti picchiatori o di qualsivoglia servizio d’ordine, diventano di colpo e per forza “due di noi” in una Milano sempre più attonita e impaurita ma storicamente ribelle e, nelle periferie, ancora fortemente operaia. Ed è così che al funerale, nella medioevale chiesa di Casoretto, accorreranno in 100mila. Un numero da capogiro che nessun omicidio politico a Milano, pur frequente in quegli anni, era riuscito a mettere insieme. Come mai? La spiegazione arriverà non più dalle percezioni personali e collettive di quei giorni ma da chi, in quei giorni, ha subito cercato una spiegazione che andasse oltre la logica, pur conosciuta, della vendetta. La prima, quella adotta dai Nar, non escludeva la seconda, più milanese e legata proprio all’odio verso la sinistra del Casoretto: l’uccisione di Ramelli, giovane di destra dichiarata, missino e ben convinto di lottare per la destra al Molinari, scuola, invece, di figli di operai. Mettendosi così in mostra e venendo da una zona (porta Venezia) tutt’altro che di sinistra (qui venne ucciso l’avvocato Pedenovi e qui abitava e abita ancora La Russa). Ramelli si era beccato una lezione a sprangate che purtroppo fu troppo pesante e lo lasciò agonizzante fino alla morte sopraggiunta molti giorni dopo. La morte di Sergio Ramelli, anch’egli 18enne, segnò un momento di altissima conflittualità nella destra missina e soprattutto i giovani della destra anche loro riuniti in diversi movimenti estremi che mai hanno scordato, più che il ragazzo morto, l’affronto nella zona che ritenevano territorio intoccabile. E così l’hanno giurata a quell’ Andrea Bellini leader del Casoretto ritenuto lo sprangatore di Ramelli, che l’anno successivo (1979) tentarono di uccidere senza riuscirci. L’omicidio di Fausto e Iaio, benchè apertamente rivendicato e confermato da esponenti di destra romani (ma non dall’accusato Mario Corsi) sarebbe potuto rientrare più logicamente in una vendetta contro ragazzi del Casoretto in attesa di far fuori il capo vero, cioè Bellini.
Ma perchè i Nar sarebbero addirittura venuti da Roma per uccidere?
La ricostruzione dell’indagine indica la presenza dell’esponente Mario Corsi a Cremona, dove, in casa sua, venne ritrovata una pistola compatibile con quella che aveva sparato in via Mancinelli, nonchè fotografie dei ragazzi pubblicate dai giornali dopo l’esecuzione. Nonostante questo, Corsi non venne indagato per la loro morte.
Le testimonianze di quella sera di marzo nelle vie attorno a quella del delitto portò successivamente a fare emergere una storia ancor più misteriosa. Una coppia disse di avere notato una moto Kawasaki con la targa coperta, fermarsi davanti a una pizzeria e vide il passeggero scendere e togliere la copertura della targa. L’orario è compatibile con la fuga dal delitto appena commesso in via Mancinelli e il percorso anche (via Porpora). Non lo è invece il farsi spudoratamente vedere in giro in zona dopo un duplice omicidio andando addirittura a mangiare la pizza. Però quella pista non venne affatto tralasciata dalla questura di Milano che, grazie all’uomo che annotò addirittura un pezzo di targa, si scoprì che la moto era intestata a un certo Gaetano Russo fino al 16 marzo 1978 e poi ad Antonio Ausilio, un brutto ceffo diciottenne già accusato di tentato omcidio. Questa pista venne abbandonata, ma oggi, rileggendo le date e le misteriose coincidenze, è difficile dividere il covo aperto per il rapimento Moro nella stessa via della casa di Fausto Tinelli da questa moto in uso a quel tempo alla destra o alla malavita che a Milano come a Roma o come a Verona e Treviso hanno dimostrato di essere spesso unite per un unico scopo: soldi e potere e rovesciamento dei poteri.
Il 31 agosto dello stesso anno, durante la caccia aperta ai terroristi assassini di Moro, il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, comunica al generale Alberto Dalla Chiesa di avere scoperto un covo delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso numero 9. Un caso fortuito. A Firenze, durante controlli a tappeto che allora si svolgevano in tutte le città, un carabinere aveva trovato su un bus di linea un borsello abbandonato. L’aveva lasciato lì, appena adocchiati i carabinieri, Azzolini, uno dei rapitori di Moro e responsabile milanese del covo di via Monte Nevoso. Molto ingenuamente Azzolini aveva lasciato nel borsello alcune “briciole” di Pollicino che i militari seguirono fino a Milano ed esattamente nel quartiere Casoretto. Di più: trovarono la chiave di un portone e per diverse notti provarono in quale casa s’infilava. Finché entrò nella toppa giusta.
L’irruzione però avvenne solo il primo ottobre e quello che si trovò lì dentro, oltre ai brigatisti, è storia di misteri d’Italia, di colpe politiche e umane. E di Gladio.
Nessuno dei militari di Dalla Chiesa collegò il nome di quella via con l’abitazione del giovane ucciso in via Mancinelli solo pochi mesi prima, ma proprio nella casa di Tinelli (che era dirimpettaia) da fine agosto al giorno dell’irruzione, il generale piazzò in un appartamento preso in affitto, uomini specialisti nel servizio di controllo, pedinamento e vigilanza. Dalla Chiesa li voleva prendere tutti i brigatisti, e possibilmente tutti insieme.
Districarsi tra nomi della malavita, servizi segreti, Brigate Rosse, neofascisti romani e milanesi, non è facile. In questa vicenda irrisolta, l’unica certezza è che se anche ci fosse stato un piano di destabilizzazione di Milano (per spostare l’attenzione o per potere emanare meglio dure leggi speciali durante l’emergenza del rapimento Moro) nell’immediato il piano non è riuscito per la fortissima risposta che Milano ha dato, spontaneamente, proprio al funerale dei ragazzi al Casoretto. “Due come noi” diceva tutto: non era una lotta tra bande e nemmeno sprangate reciproche e figuriamoci pistolettate. Due come noi, ha unito tutta la sinistra democratica di Milano in un’onda oceanica che non solo quel giorno, ma che per 40 anni non ha mai scordato i suoi ragazzi finiti in qualcosa più grande di loro.
Nel giro di un anno a Milano iniziò a sfaldarsi la coesione della pur divisa sinistra extraparlamentare e la voglia di lottare contro poteri troppo forti subì contraccolpi enormi. Il piano, dunque, aveva vinto. I primi anni ’80 il Centro Leoncavallo aveva già cambiato faccia e l’entusiasmo dei ragazzi che lo frequentavano si era spento. Il Centro però riuscì a rimanere in piedi e attivo e quando arrivarono le ruspe, anche ad ottenere la sede di via Watteau, altro quartiere, altra storia.
Inutile dirlo: per Moro o per Fausto e Iaio – o per tutti e tre – niente da quel marzo 1978 è stato più lo stesso.
(le foto sono sulla pagina Facebook Bruna Bianchi Giornalista)