Dal boschetto non si esce incolumi

La polizia a me ha detto: ma dove va con quella macchina fotografica al collo?
Ero appena tornata dalla strada che conduce al boschetto di Rogoredo, dove hanno costruito un muro e qualcuno l’ha picconato per passarci. Per la seconda volta ho tentato di avvicinarmi, a piedi, con un obiettivo 300 millimetri, al boschetto della droga, e ho dovuto fare marcia indietro, verso la stazione dei treni.
Fabrizio Corona invece entra, dice di essere stato picchiato, denudato e di avere perso il cellulare. Nemmeno uno qualsiasi: un Iphone. E lui, pregiudicato, ha l’Iphone e se lo porta di notte in mezzo agli spacciatori per fare un servizio tv? La realtà sembra un reality show e difatti lo è, ma stavolta coinvolge forze dell’ordine e giustizia.
I carabinieri di pattuglia vedono due Suv parcheggiati e si fermano perché sentono delle grida provenire dall’interno del bosco.
Se non avessi visto un pezzetto di video girato dal cameraman che era con Corona non ci avrei creduto. Perché i carabinieri fanno un favore a un delinquente e disturbato come Corona? Perché si prestano a questo show che fa un favore a lui e mette in cattiva luce l’Arma?
Perché viviamo in un reality show.
In quel boschetto che non è più nemmeno boschetto, si entra solo se prima di arrivarci sei riconosciuto come drogato che acquista droga. Per accorgersi di cosa è quel luogo dopo le ruspe, il muro e la polizia che passa ogni 15 minuti perché quella strada è frequentata da automobilisti e non solo da tossici, basta femarsi davanti alla stazione di Rogoredo. Da lì si vede ogni movimento. Per capire meglio si può andare oltre, fino al primo pilone della tangenziale (a piedi) e si vedono persone camminare, ma entrare proprio no, non è nemmeno pensabile. I derelitti che lì vivono (l’area è ampia, sotto la tangenziale est) quasi tutti stranieri, senza dimora, drogati o no, non desiderano spioni e figuriamoci con macchine fotografiche o telecamere. Dicono, gli abitanti della zona, che lì dove prima si spacciava per migliaia di euro all’anno e il boschetto era richiamo per i cacciatori di eroina e cocaina, e adesso c’è il muro, non c’è più il vero spaccio: si è spostato altrove. Restano invece i più pezzenti dei pezzenti anche un po’ fuori di testa come quello che mentre sto parlando con la polizia finisce contro un cartello della stazione, ci sbatte la fronte e devono chiamare l’ambulanza perchè si è ferito. A me inventa un mare di storie e non credo nemmeno lo faccia apposta, ma la polizia di lui si preoccupa perché lo conoscono. Li conoscono tutti, i poliziotti che vigilano sulla stazione, li sopportano e a volte li supportano anche.
Uno dei miei post in questo blog sul racconto diretto di un tossico, ha decine di entrate ogni giorno, tutte tramite ricerche in google. E’ l’unico post che attira traffico da due anni. Chiedo a un poliziotto: come mai? Lui è sicuro: sesso, morbosità. Non sa, il poliziotto, che in quel post ho scritto anche delle ragazze. Mi vengono i brividi a pensare che mentre faccio informazione e vado da sola in questa periferia milanese che mette più tristezza che brividi, la gente cerchi in google i segreti dei drogati. Peggio: gode perversamente di quello che lì dentro capita alle ragazze. Corona non vi spiego chi è. Leggete wikipedia e la sfilza di reati. Non c’è scritto che è un anti sociale e narcisista (solo disturbi di personalità) che vuole pubblicità (come per la squallida vicenda di Asia Argento) mentre non ha ancora finito di scontare la pena e gli è stata concessa l’alternativa al carcere. A lui, non a tutti quelli che hanno compiuto tanti reati come lui. E anessuno infastidisce. A me moltissimo perché faccio la nera da gtrnt’anni e ne ho visti e consciuti di piccoli e grandi delinquenti, persino di criminali. E conosco anche chi ha compiuto reati molto, molto minori e non riesce ad uscire nemmeno volendo dalle grinfie della giustizia, assitenti sociali, psichiatri e comunità. Corona è un privilegiato ma delinquente resta.
I carabinieri gli hanno fatto un grosso favore ieri sera. E siamo a Milano, a due passi dalla sede di Sky e altri due dalla stazione più trafficata da chi usa Italo e da chi, dal Sud, viene a Milano per sperare di salvare un priprio caro malato di cancro. Da Rogoredo, con un taxi, si raggiunge l’ospedale oncologico di Veronesi. I viaggi della speranza sono questi. Il resto è fuffa.

Messico, omicidi e potere. Tre arresti per i napoletani scomparsi

Il 2 luglio a Tecalitlàn, nello stato di Jalisco, in Messico, è stato ucciso con una raffica di proiettili il sindaco Victor Diaz de Contreras. Aveva 28 anni e tra poco sarebbe diventato papà. Due giorni prima aveva postato sulla sua pagina Facebook le foto dell’auto di suo fratello con i vetri rotti e il contro avvertimento: non ci faremo intimidire. Il giorno dopo, il Messico aveva eletto il nuovo presidente, a sorpresa per tutti, un socialista populista. Victor Diaz era tra i miei contatti Facebook dai primi di febbraio, quando ho iniziato ad indagare sulla vicenda dei tre napoletani scomparsi proprio nella sua cittadina. Ero stata così tempestiva da riuscire a parlargli prima di tutti i colleghi, appena è uscita la notizia che nel suo Municipio erano stati arrestati tutti e 33 i poliziotti municipali accusati dal giudice (la fiscalia dello Stato) di avere avuto a che fare con il rapimento di padre, figlio e cugino (Russo e Ciammino) che in Messico vendevano ufficialmente truffaldini macchinari. Il capo della polizia era addirittura scomparso giusto a ridosso dell’arresto e di lui (almeno noi) nulla abbiamo più saputo. Azzerata la polizia e costretta a parlare, era saltato fuori che almeno 4 poliziotti (tra cui il capo) avevano preso soldi (pochissimi per la verità) per vendere i tre a un certo don Angel ritenuto intermediario del cartello della droga locale, la Generacion Nueva Jalisco.  Victor Diaz mi è sembrato subito un ragazzo senza pelo sullo stomaco che negava l’evidenza e spostava i discorsi in modo troppo ingenuo per essere scafato. Mi ha parlato a voce e per messenger e più mi parlava più ingenuo mi pareva. Ha subito negato con decisione di aver mai saputo qualcosa della sua polizia municipale benchè fosse sindaco da 4 anni, benchè fosse nato in quell’ambiente corrotto ( come in tutto il Messico, soprattutto i piccoli paesi) e benché lavorasse tutto il giorno nello stesso palazzo dove ha sede il comando di polizia.  Se anche sapeva, a me è parso uno che non raccontava niente in giro se non altro per salvarsi la pelle. Mi è risultato da subito molto difficile pensare che facesse parte della combriccola e forse è stato proprio così o non l’avrebbero crivellato di colpi in auto insieme a una collaboratrice comunale. Non si difendeva nemmeno con scorte o chissà che. Anni prima, appena eletto, aveva avuto minacce forti perchè il suo partito era minoritario o, sarebbe più corretto dire, non era infilato come gli altri nello stesso giro dei cartelli che a decine comandano in vari stati messiccani dopo la cattura dei boss che tutto, prima, controllavano. Il rischio di fermare i boss è sempre quello di favorire la nascita di gruppi minori, totalmente fuori controllo sui territori. Così era ed è anche a Jalisco, dove i morti ammazzati non sono solo cittadini più o meno onesti, ma soprattutto esponenti di bande di delinquenti che solo in parte sono collegate alla vendita della droga. Cosa ha collegato un ipotetico don Angel intermediario tra la polizia di Tecalitlan e il cartello dei narcos di Jalisco con tre napoletani che vivevano di truffe? Cosa ha collegato, se è collegata, la sparizione dei tre nello stesso giorno e nello stesso luogo (il distributore di benzina al confine del paese) con l’omicidio, 5 mesi dopo e a due settimane dalla sua possibile rielezione a sindaco, il giovane Victor Diaz, il “presidente” come là si definisce, di Tecalitlan? Per il magistrato che indaga, i collegamenti sono possibili. L’ha detto ieri, dopo aver arrestato tre personaggi in relazione alla scomparsa dei napoletani. Altri 600 messicani (e alcuni italiani) non sono mai più stati ritrovati a Jalisco, ma per i napoletani (di cui uno pregiudicato e latitante per l’Italia) sembra che le indagini siano state più mirate. Forse è stata solo l’occasione giusta per fare pulizia di qualche (ormai) fastidioso nuovo boss della droga.

Il boss in cella è soprannominato “El 15”, ma il suo nome è don Lupe, presunto capo regionale del Cartel Jalisco Nueva Generacion. L’hanno catturato domenica gli uomini dell’Agenzia Nacionale di Investigazione Criminale  a Zapopan, una località dello stesso stato, alla periferia di Guadalajara. Insieme con lui sono stati catturati anche Josè Guadalupe N e Junior, probabilmente padre e figlio.

Don Lupe, el 15, coordinava la vendita e il trasporto della droga in almeno otto cittadine, tra le quali Tecalitlan, e tre porti (la droga si invia per nave in Usa ed Europa).

Erano stati i poliziotti municipali arrestati a spifferare in fretta al giudice (non sono esclusi pestaggi  della polizia di Stato e dell’esercito per farli parlare) che avevano consegnato loro, su ordine del capo della polizia municipale, i tre napoletani a un cartello di criminali locali. Non restavano molti dubbi sul fatto che il napoletano Antonio Russo non fosse estraneo a un accordo disatteso che prevede, ben peggio che a Napoli, una punizione esemplare e definitiva. Russo era abituato al massimo a pensare a un arresto e forse credeva di sapersi muovere bene in ambienti di altissima corruzione e gente che non dice una parola ma agisce con l’inganno e una rete di potere in stile mafioso e omertoso insieme.

El 15 era ricercato da tempo per diversi crimini, uno dei quali particolarmente odioso per lo stato messicano: aveva aggredito agenti della Marina Armata del Messico in Ciudad Guzman, stesso distretto di cui fa parte la cittadina dove El 15 aveva il suo quartier generale.

Victor Diaz, che era solo un ragazzo, potrebbe essere stato eliminato per diverse cause, una delle quali è la mancanza di copertura che prima aveva (del partito cui apparteneva) e gli potrebbe essere venuta a mancare. Un’altra ragione potrebbe essere il suo tirare dritto senza volersi piegare al riconoscimento del potere (chi non denuncia dovrebbe partecipare sottomettendosi o diventa pericoloso) locale del narcotraffico o suoi amici deliquenti che hanno bisogno del via libera comunale per agire indisturbati. Posso sbagliarmi sul conto di Victor di cui so troppo poco, ma il dispiacere di non essere riuscita a parlargli il giorno che ha postato le foto dell’auto del fratello, è stato enorme. Posso azzardare che fosse stato eletto proprio perché ingenuo, e il rischio della rielezione con consensi maggiori da parte del popolo onesto e umile che amava molto e lo ricambiava, era troppo concreto per un cartello che fa traffici milionari e non ha mezzo scrupolo a punire o far fuori chi sgarra o lo ostacola.

 

Il caso (intricato) di Pamela

 

Lo leggeranno gli ormai pochi interessati, perché Pamela non fa più notizia. A me, personalmente, interessa capire come sono andate le cose. Ho cercato di riordinare il caos scritto e televisivo dal 31 gennaio, primo giorno in cui questa storiaccia è apparsa sui giornali con il ritrovamento dei due trolley. Mancano molti riscontri effettivi (non dispongo di orari esatti, celle telefoniche, numeri di telefono chiamati, ecc. e verbali di interrogatori anche solo testimoniali) e non mi sono nemmeno addentrata nell’autopsia non avendo nessun documento ufficiale in mano (e forse anche non credendo ciecamente alla sua veridicità, essendo stata doppia).

IL 29 GENNAIO 2018
Pamela è ospite da ottobre della comunità di recupero Pars di Corridonia, paese che dista circa mezz’ora d’auto da Macerata, nelle Marche, lontano dalla costa. Viene da Roma, dove da diverso tempo era diventata ingestibile in casa e in altra comunità. Pamela, nel 2016, dopo una breve storiella amorosa, conosce un ragazzo problematico e piccolo spacciatore e con lui inizia a drogarsi. Secondo la madre non si fa (cioè non si buca), ma sniffa eroina oltre che hascisc. E’ lei stessa a scriverlo su Facebook all’età di 16 anni: forse un giorno smetterò di fumare. Pamela però non si droga solo perchè ha conosciuto un drogato, ma si droga perchè lei stessa ha un disturbo della personalità che la porta a incontrare le persone come lei. Pamela è immatura. Si affida alla madre che la vuole recuperare e lei stessa è contenta dopo poco tempo della comunità Pars dove ha trenta compagni di sventura ma nel giro di due settimane la individuano per un lavoro di responsabilità: occuparsi della lavanderia. E’, questo, un lavoro vero e proprio molto in uso in tutte le comunità e anche negli ex ospedali psichiatrici e serve a responsabilizzare uno o più ospiti in cura che maggiormente si ritengono in grado di compiere l’attività. A dicembre però Pamela comincia ad accusare malessere. E’ lo zio avvocato (lo stesso che ora difende la famiglia e, per inciso, uomo impegnato in Forza Nuova a Roma) a riferire che vomitava. Da ottobre Pamela non poteva più toccare droga e nemmeno telefonare. Come in tutte le comunità però, una volta maggiorenni, non esiste la coercizione, ma solo convincimento e regole, a volte molto rigide per esempio sui contatti con l’esterno. Nonostante questo, Pamela sistema le sue cose nel trolley e lunedì 29 gennaio imbocca il vialetto principale del Centro di recupero, i cui responsabili diranno poi che hanno tentato di fermarla, inutilmente. Non è escluso invece che non se ne siano nemmeno accorti. Quando se ne accorgono avvertono la famiglia (è la regola) per sapere soprattutto se andrà a casa da loro. Che abbbiano avvertito anche i carabinieri ho i miei dubbi (non ci sono reati) mentre è certo che l’abbia fatto la madre al commissariato di Roma o lo stesso giorno o il giorno successivo.
Si sa per certo che Pamela incontra un’auto mentre cammina in mezzo alla campagna, nell’unica stradina che collega i vari paesi. E’ un Opel guidata da un meccanico della zona che, alle 13 e 30, stava rientrando al lavoro dopo essere stato dalla sorella a pranzo. Carica Pamela in auto e la porta, con il consenso di lei, nel garage della casa della sorella, dalla quale è appena uscito. Stende una coperta (così racconterà lui) e ha un rapporto sessuale con Pamela . La quale Pamela ha bsogno di soldi e cerca solo quelli, disposta anche al meccanico 50enne pur di averli. Il rapporto potrebbe però essersi risolto in uno orale e anche piuttosto veloce, tipico delle ragazze che cercano droga, e degli uomini che tirano su ragazze per la strada di cui hanno immediato sentore di prostituzione. Il meccanico sostiene di aver lasciato Pamela alla stazione più vicina, cioè quella di Piediripa- Mogliano, che dista solo 9 minuti di treno da quella principale di Macerata, verso le 18. In effetti, alle 18 e 53 c’è un treno che arriva a Macerata alle 19,02. Pamela intende andare a Roma, unica destinazione a lei conosciuta (non necessariamente a casa, o avrebbe fatto una telefonata alla madre chiedendo un cellulare in prestito, cosa che fanno tanti giovani) e da Macerata partono i treni per Roma. Sa ben poco della zona (prova ne è che non conosce il servizio di autolinee, nè che avrebbe potuto spostarsi su direttrici più servite) e ha pochi soldi, e perciò deve escludere tutti i treni di alta velocità da qualunque stazione partano. L’arrivo a Macerata è quello di una ragazza spaesata che cerca di capire come muoversi dalla città ma nello stesso è quello di una ragazza che non sta bene (è scappata da un progetto e non ne ha altri) e ha bisogno di aiuto che però non chiede alle persone per bene (magari donne o personale della stazione), ma a uomini che la vedono una preda facile. E’ appunto così che incontra fuori dalla stazione un tassista italiano di Macerata che la invita a cenare a casa sua, lavarsi e dormire. La rivelazione, va detto, è di Quarto Grado, che ha scovato questo “buon samaritano” numero due, dopo 15 giorni puntati solo sui nigeriani. Oggi verrà interrogato.

Il 30 GENNAIO 2018

La mattina dopo verso le 8,30-9, il tassista riporta Pamela in stazione e lì la lascia. Lei andrà subito in biglietteria dove chiede (c’è la testimonianza dell’impiegata) quale treno può prendere per Roma. Uno è già partito (alle 7,34) e il secondo è alle 13,08. Costa 17 euro e 30. E’ inquieta, deve attendere ore in stazione, fa su e giù dentro e fuori, si ferma al binario e vede un ragazzo di colore seduto su una panchina a cui chiede se ha del fumo. Lui gli risponde che lui no, ma ce l’ha un suo amico; Innocent Oseghale. Difficile che si siano contattati per telefono: più facile che il ragazzo gli abbia detto il nome “Innocent” e il luogo dove trovarlo: i giardini di piazza Diaz. Non è un mistero per nessun maceratese e dintorni (fino a Civitanova Marche, sulla costa) che i nigeriani spaccino hascisc davanti alla fermata delle autolinee della piazza. Ma Pamela non conosce Macerata e per arrivare lì deve affidarsi a un tassista. Stavolta è un peruviano. I sudamericani sono curiosi. Così di Pamela, dopo aver trattato il prezzo della corsa (che pagherà due euro meno rispetto alla richiesta di 7 euro) si siede davanti e non perché, come lui spiega, si possa fare, ma perché il tassametro è stato spento avendo trattato sul prezzo della corsa. La distanza è di poco più di un chilometro, ma l’auto deve fare un giro ben più largo. Il peruviano le chiede da dove viene e dove va e lei butta lì che deve tornare a Roma ma prima deve incontrare una persona ai giardini. Il tassista la descrive agitata e con lo sguardo attento a capire chi è Innocent e dove sarà, ma è lo stesso tassista a depositarla davanti alle autololinee, come dire nella bocca del leone. Cosa si sono detti i due, se Innocent non lo svelerà (e io credo che mai lo farà) non possiamo saperlo. Possiamo immaginare che Innocent le abbia detto che aveva solo una dose sola di hascisc (era già stato arrestato per spaccio alle scuole e nessun pusher tiene più di due dosi) e possiamo immaginare che Pamela abbia chiesto qualcosa di più forte. Perché stava male. Innocent Oseghale, che come tutti i pusher sono collegati gli uni agli altri, la accompagna ai giardini dello stadio dall’amico Lucky Demond che invece spaccia anche eroina. Lo stadio è in piazza della Vittoria dove c’è il monumento ai caduti che pochi giorni dopo Luca Traini userà per erigersi a giustiziere della patria, avvolto nella bandiera tricolore, e qui verrà arrestato.
Cosa succede a questo punto? Lucky Demond vende la dose di eroina si suppone tra i 20 e 30 euro (l’effettivo costo è 20 ma Pamela non conosce il mercato e potrebbe aver pagato di più) e resta dov’è. Sono circa le 10 e 30 del mattino. Pamela e Oseghale si avviano verso via Spalato, dove lui ha la casa. E’ lui a dirle che può fermarsi a casa sua, dove sua moglie e sua figlia non ci sono per qualche ora (in realtà soo ospiti di una casa famiglia lontano da Macerata) e lei può riposare e attendere il prossimo treno. E’ lui a dirle, in modo affabile e tranquillo, che l’aiuterà. Cosa vuole Pamela? Essere aiutata, drogarsi, dormire e non pensare a niente per qualche ora. Perchè non fidarsi di Oseghale così gentile che è pronto ad ospitarla anche a casa? Non si era già forse fidata del meccanico e del tassista? E nessun drogato può essere razzista: gli spacciatori sono neri. Pamela ormai deve avere pochissimi soldi in tasca e le servono per il treno. A Roma ci vuole andare, anche se ancora non sa dove. Ma Roma, almeno, la conosce e ha contatti.
Oseghale la conduce in via Spalato ed entrambi decidono di comprare qualcosa da mangiare, sono ormai quasi le 11. Segno che Pamela inende fermarsi diverse ore, se non addirittura un’altra notte a Macerata). I due entrano in un piccolo supermercato a 100 metri da casa sua, in una bella via residenziale: è il supermercato dove lui va sempre anche con la sua compagna e la bambina che vivevano con lui fino a pochi mesi fa. Qui comprano pasta e qualche dolce per un totale di 12 euro. Dieci ce li mette Oseghale, due Pamela. Pochi passi più avanti c’è la farmacia, ma Oseghale non vuole entrare con Pamela ad acquistare la siringa. Non gli importa farsi vedere in giro con Pamela, gli importa non farsi beccare con la droga o lo cacceranno via. Pamela compra la siringa (la farmacista confermerà) alle 11,02 minuti, come dice lo scontrino che verrà poi ritrovato a casa di Oseghale. Intanto però il tassista peruviano casualmente entra nella stessa farmacia e rivede la ragazza col trolley che aveva trasportato poco più di un’ora prima. Non si salutano. La vede anche allontanarsi con uno di colore che l’aspettava sul lato opposto del marciapiedi. Lui dirà anche che li vede entrare insieme al 124 ed è interessante notare che, essendo la farmacia più indietro rispetto alla casa e la strada a senso unico in discesa verso il centro, li deve avere osservati molto attentamente, addirittura aver guardato il numero civico che poi racconterà ai carabinieri e diventerà un tetimone importantissimo. Non è stato l’unico ad avere visto Oseghale con Pamela in un orario in cui le persone scendono dall’autobus poco distante o rientrano a casa per pranzo. E i testimoni infatti confermeranno di aver visto questa ragazza con un grande trolley entrare nella casa di Oseghale. Siamo in provincia, gli estranei destano sempre curiosità.
Sono da poco passate le 11 e i carabinieri nelle loro indagini rilevano le prime telefonate fatte da Oseghale, tutte brevissime.
Ma è dalle ore 12 che l’indagine colloca l’agganciamento delle celle dei tre sospettati (Oseghale e altri due nigeriani) nella cella della zona di via Spalato. Attenzione: aggancio delle celle non signfica che erano presenti in casa, ma che hanno chiamato o ricevuto chiamate o whattsapp o sms. Alle 14 e 30 un certo Antony, nigeriano punto di riferimento dei connazionali per le pratiche di soggiorno e altro, chiama (o è chiamato da Oseghale. Lui riferisce: ci siamo sentiti per il permesso di soggiorno scaduto e lui mi ha riferito che aveva una ragazza in casa che dormiva). Tradurre queste parole non è facile anche perché potrebbero essere inventate. Il senso potrebbe essere stato: non posso parlare adesso, c’è una persona estranea e per di più italiana.
Gli investigatori collocano la morte di Pamela tra le 12 e le 19 di quel pomeriggio. Ma un po’ si contraddicono con i cellulari. In sostanza Oseghale avrebbe fatto una serie spaventosa di telefonate a chiunque “cosa incompatibile con l’ouccparsi contemporaneamente di violentare, uccidere e fare a pezzi una ragazza” scrive il gip nell’ordinanza. Non dispongo del significato esatto di cella telefonica in questo caso: se i due sospettati hanno chiamato Oseghale è evidente che non erano in quella casa, ma si può sapere dov’erano, e invece non viene detto. Uno dei due, Lucky 10, vive ben distante da Macerata, mentre Lucky Desmond lo spacciatore di eroina, vive in città. Lucky 10 non ha nessun mezzo pubblico per raggiungere Macerata perciò i due potrebbero aver passato la notte insieme o addirittura uno dei due nella casa di Oseghale che era abituato ad ospitare connazionali. Lucky 10 è il terzo uomo fermato a Milano dove si presume fosse in fuga con la moglie, nigeriana ospitata invece tra i profughi di Cremona, per raggiungere la Svizzera. Lucky 10 era già andato a Cremona, non si sa quando, per prelevare la moglie, dato che i carabineri hanno intercettato il suo cellulare lungo la via Emilia (in treno) mentre stavano raggiungendo la stazione Centrale di Milano. Li hanno presi sui binari.
A Lucky Demond si è arrivati facilmente perché il suo nome è stato fatto da Oseghale: “lui ha venduto l’eroina a Pamela”.
All’altro nigeriano si è arrivati tramite i numeri di cellulare trovati in quelo di Oseghale e soprattutto agli orari delle chiamate, cioè tra le 11 e le 19. Alle 12 tutti e tre i telefoni risultano spenti, ma non è così, visto che il quarto uomo, considerato il tira fuori guai dei profughi, parla ben due volte al telefono con Oseghale tra le 14 e 30 e le 17 e 30. E’ lui a dire che Oseghale l’ha chiamato per dire che la ragazza che aveva in casa è stata male e non sapeva cosa fare. Il racconto collimerebbe con l’affermazione di Oseghale: Lucky Demond ha venduto l’eroina, lei è stata male e io sono scappato. Forse non è scappato, è stato preso letteralmente dal panico. Dunque cosa ci facevano gli altri due a casa sua, così come li piazzano gli investigatori?

LE ACCUSE
Il quadro accusatorio è violenza di gruppo, o almeno tentata violenza di gruppo. E’ una delle più – scusate -banali motivazioni di un delitto. Ma in questo caso sono tante le cose a non combaciare. Oseghale e Demond sono cattolici, chi l’avrebbe detto? Spacciano, ma non hanno dato nessun segno di essere violenti, nè apertamente squilibrati. Oseghale sì, è uno che male si adatta, che non vuole imparare l’italiano, che si accomoda in una casa affittata da una italiana (e che casa!) , che con lei fa una bambina ma naturalmente non se ne occupa affatto. Ed è uno che va letteralmente nel panico e la sua reazione ansiosa è chiamare mezzo mondo e chiedere aiuto. Se aveva due “amici” in casa perchè ha tanto bisogno di chiedere aiuto all’esterno e fare sapere a tutti che aveva un problema grosso?
Le telefonate e le celle telefoniche agganciate dagli altri due sono la chiave di volta per capire se le cose sono andate come dice la Procura: Oseghale chiama i due amici (che forse si trovano insieme quella mattina) per fare un festino a Pamela che lui è riuscito a portare facilmente in casa. Pamela però ha ampiamente dimostrato di essere una ragazza pronta anche al sesso pur di aere soldi o droga in cambio e anche la gentilezza di un luogo che ricorda una casa senza regole. Vuole cucinare la pasta al suo violentatore? Ma no. Entrambi vogliono delle cose l’uno dall’altra, quelle dei disperati. E non è così scontato che sia il sesso a unire i disperati. E’ così certo che gli altri due siano stati presenti mentre Pamela dormiva o era caduta in uno stato “fatto” non solo da eroina ma anche da hascis e chissà che altro? E’ così sicuro che Oseghale non racconti una piccola parte di verità “è’ stata male” e ha chiamato in aiuto i connazionali e addirittura un terzo (solo al telefono)? Manca però la seconda parte di questa tragedia, chiamiamola annunciata, o meglio tragedia tra disperati: la ragazza è morta o è stata uccisa? Se fosse stata uccisa, logica vuole che Oseghale non avrebbe chiamato un aiuto esterno per risolvere il guaio (o portare via il corpo o salvarla) e logica vuole che il cellulare di Lucky Diamond alle 19 non ricevesse la telefonata di Oseghale se questi fosse stato in casa a sezionare il cadavere. E’ stato lo stesso medico legale a sostenere che il lavoro era accurato e faticoso e richiedeva molto tempo. Oppure richiedeva un grande sforzo pur di non essere accusato di un crimine da spaccio: l’overdose.
Non è il pirmo caso, questo, di un solo uomo che compie un sezionamento in dieci pezzi, numero che è servito a essre diviso in due trolley di discrete dimensioni. I particolari emersi dall’autopsia non sono confermati: perciò non mi addentro nella scarnificazione descritta con enfasi, ma solo nel dissanguamento che effettivamente deve essere stato necessario, sul terrazzo, per la stessa ragione: portare via il corpo “pulito”.
Alle 22 Oseghale chiama l’autista conosciuto dagli extracomunitari, il camerunense che dovrà aiutarlo a far sparire Pamela ormai ridotta molto male. Se chiama lui,è segno che non aveva nessun altro, dopo aver tentato inutilmente di coinvolgere il quarto uomo e ben sapendo che nessun nigeriano possiede un auto. Perchè il camerunense? Semplicemente perché è uno che di solito tiene la bocca chiusa. Ma stavolta non lo fa. Perchè c’è una ragazzina depezzata che lui ha persino visto (è tornato indietro a vedere cosa aveva lasciato nei trolley il suo passeggero) ma ha preferito farsi i fatti suoi. Fino al giorno dopo (la notte porta sempre consiglio).
A questo autista improvvisato, Oseghale chiede di essere portato coi due trolley ch carica lui direttamente in auto, a Tolentino. Caso vuole che sia la stessa città dove vive Luca Traini, pronto a fare una strage di tutti loro. Alle 22 e 20 l’auto incrocia una telecamera che ne registra il passaggio: ha appena deviato dalla statale che porta a Tolentino per entrare in una strada provinciale che costeggia il quartiere chiamato Casette Verdi, prima periferia di Pollanza. E’ un luogo a caso, individuato alla vista per essre ancora tra i campi e non ancora in città. Ma talmente a caso che Oseghale dà lo stop brusco all’autista e sceglie di disfarsi dei due trolley quasi davanti a una grande villa, mezzi buttati dentro un fossato a latere strada. Un gesto veloce, che indica la fretta e l’ansia e la fretta e l’ansia non sono mai buone consigliere. E’ infatti così che lo prenderanno subito.
Nessun criminale farebbe una cosa simile, nessun omicida, nessuno che non volesse sicuramente essere preso.
Oseghale e Lucky Demond però hanno fatto altro insieme, e lo dice il negozio dove hanno acquistato verso le 19 di quella sera (ecco la telefonata) un contenitore di candeggina da 10 litri. Un ripiego, perché cercavano altrettanta quantità di acido muriatico e non l’hanno trovata.
La candeggina non serve a niente, ma molta gente (sopratutto chi è ospite di comunità, centri profughi o hotel) è convinta che serva a cancellare le tracce anche di sangue. Sbianca, non cancella un bel niente. Anzi: se cammini su un pavimento lavato con la candeggina lasci persino le impronte ben visibili. E’ questo appunto che hanno trovato i Ris.
Pamela è stata lavata con la candeggina, probabilmente per la stessa ragione: togliere tutto il sangue che non deve essere stato poco, inzuppare stracci e pulire: corpo e pavimento hanno ricevuto lo stesso trattamento. Da chi? Solo Oseghale, lui con Demdon o tutti e tre? Oseghal e Demond sono entrambi cattolici e questo, oltre allo spaccio di cui vivono, li unisce in una sorta di fratellanza. Insieme giocano anche alle scommesse nel locale proprio a due passi dalla casa di via Spalato. Certamente tra loro l’aiuto è sacrosanto. Lucky 3 invece è impaurito così tanto che non scappa da solo, ma va a prendere la moglie, segno di un legame affettivo al quale non ha rinunciato. E di ben pochi calcoli.
Pamela, il cui corpo è stato descritto come smembrato e quasi scuoiato, a me è apparso invece lavato con cura quasi maniacale, depezzato con disgusto (ricordo che Oseghale, al momento dell’arresto, cioè un giorno dopo, è apparso confuso e ciò esclude la freddezza dello psicopatico) e infine depositato con orrore appena è stato possibile.
Una serie di concatenamenti meschini (degli italiani e del sudamericano) e il potente immischiarsi della politica e del gusto del macabro, hanno reso, a mio parere, una vicenda tristissima di gente ai margini, ignorante e immatura, spaventata e senza regole, simile ad altre (tipo il caso Meredith, violenza di gruppo) senza necessariamente esserlo.
Ps: Gli aggiornamenti ufficiali (della Procura di Macerata) potrebbero modiicare il ragionamento e individuare responsabilità diverse da quelle che mi sono sentita di proporre.

Gli orchi e la bambina

Uno che è stato chiamato Innocent e che finisce in galera accusato di omicidio e vilipendio di cadavere, è già un traditore di se stesso. Uno che di cognome fa Oseghale, e che è accusato di avere sezionato con una mammaia e un coltellaccio in venti pezzi il corpo di una ragazza, deve essere un disgraziato anche nel dna, almeno in Italia, dove questo cognome ha un significato pesante comunque.
Uno così, 30 anni, originario della Nigeria, richiedente asilo dal 2014, e mentre aspetta di essere accolto ha una compagna e una bambina che però non lo vogliono e lo lasciano in un piccolo appartamento intestato chissà a chi, e mentre aspetta di essere accolto refila marijuana e hascish ai ragazzini delle scuole (proprio a loro, facile imbecillità) e lo beccano, a Macerata, città conficcata nelle Marche, lugubre come questa storia, tagliata fuori dal mondo come la povera Pamela, difficile arrivarci, difficile sentirsi accolti, difficile che una farmacista non racconti con orgoglio che lei sa che quella siringa che ha venduto per 20 centesimi a Pamela non è per l’eroina, ma per il cocktail di droghe pesanti, lei sì che è esperta, lei conosce tutti i drogati e tutte le siringhe. E le vende. L’ha venduta anche a una piccola ragazza col cappotto che deve avere avuto la faccia di una bambina. Chissà com’era Pamela nelle sue ultime ore di 18enne incapace di vivere senza il buco che toglie il dolore dell’anima e insieme toglie quelle cancellate, quei divieti, quelle regole sociali che lei no, non voleva. Chissà com’era disperata Pamela per accettare di salire in casa di uno così brutto (ma avete visto la foto?), che dovrebbe fare paura. Brutto da perverso, brutto da perso, brutto da capace di tutto. Pamela Mastropietro ha organizzato la sua fuga con calma e non ha fatto sospettare nessuno. Hanno cercato di fermarla, ma l’hanno fatto con le buone, e lei ha detto no, vado.
Chissà dove voleva andare, senza documenti. Tra la comunità e la città di Macerata c’è un’ora di cammino a piedi. Basta guardare la cartina e si vede che il percorso sono stradine, ma anche senza guardare la cartina, io me le ricordo quelle stradine tutte a curve dove passa una macchina ogni tanto. Se avesse fatto l’autostop qualcuno si sarebbe presentato ai carabinieri. Se è andata a piedi non sappiamo ancora dove, perchè la siringa in farmacia l’ha comprata il martedì mattina alle 11 e la fuga dalla comunità coop sociale Pars è del giorno prima.
A Macerata ci sono vari punti di spaccio dell’eroina. Che beffa. Proprio dove ci sono comunità che cercano di disintossicare i tossici, si trova la droga facile. Uno di questi ritrovi è il terminal delle autolinee.
Il nigeriano Innocent è stato colto dalle telecamere mente l’attendeva un po’ distante dalla farmacia e poi le stesse telecamere li hanno ripresI insieme fermi, vicini. Ha detto che l’ha seguita ma non uccisa. E, invece, sicuramente non l’ha seguita, ma l’ha accompagnata, e sicuramente (per ora sappiamo questo) in casa sua c’era sangue lavato con la candeggina e nemmeno bene, persino sul balcone, dove forse ha appoggiato “gli attrezzi” per lo scempio. Non è detto che l’abbia uccisa lui, ma è altamente improbabile che non l’abbia smembrata lui. E non da solo, come stanno ricostruendo gli inquirenti. E’ stato lui a chiamare l’auto privata che dà i passaggi a pagamento, un autista del Camerun che si guadagna da vivere così e non squartando persone o spacciando droga, e ha depositato le due valigie contenenti i resti della povera Pamela.
Mentre si visionavano le telecamere, il camerunense è andato spontaneamente dai carabinieri a raccontare che aveva preso su un tipo africano con due grandi trolley (uno era quello di Pamela?) che ha poi depositato ai bordi di una strada in un piccolo paese vicino, e così Innocent è stato beccato.
L’autopsia su quello che è rimasto del corpo di Pamela non è riuscita a stabilire le cause della morte. Sembra assurdo, ma i medici legali non sono il popolo di twitter o di Facebook che trae conclusioni in un attimo: tagliata non vuol dire tagliata viva. E per fortuna. Ma sarebbe stato anche impossibile farlo e nessun vicino ha sentito neppure un grido quel pomeriggio. Se Pamela è morta senza gridare ci sono solo due possibilità: o è stata strangolata velocemente con una sciarpa, o è morta di overdose. Delllo strangolamento non sono stati notati segni evidenti sul collo, della possibile overdose si saprà solo dagli esami tossicologici. Il nigeriano era spacciatore di hascich e marjiuana. In casa sua sono stati trovati 70 grammi, poca roba per un pusher, ma abbastaza per vivere. Innocent può aver procurato la droga pesante a Pamela per guadagnarci, ma anche perchè Pamela era una ragazza fragile e bella. le ragazze belle drogate e disperate sono pronte a tutto per un buco. Potrebbe avere promesso sesso in cambio, e poi essersi tirata indietro. Non è stata consumata violenza sessuale, ma non è escluso che possa essere morte di conseguenza ad altro reato, perciò omicidio: ti dò la droga pesante e tagliata male (che costa meno) e tu mi paghi col tuo corpo. Tante ragazze al boschetto di Rogoredo pagano così gli spacciatori. E’ risaputo, ma l’attività di spaccio e violenza sulle donne continua. A Milano.
Quando un tossicodipendente muore di overdose, gli spacciatori o chi è in casa con loro a consumare, prendono il corpo e lo abbandonano. Ma Innocent non aveva l’auto e il lavoro che ha fatto denota anche uno squilibrio mentale notevole, uno di quelli che vengono consumando droghe anche leggere, e che aumenta con gli abbandoni affettivi e il senso di ansia misto a terrore di dover tornare, prima o poi, nel paese dal quale si è fuggiti. Così si perde il controllo e la ragione, e quello che sembra persino ragionevole (disfarsi di un corpo anche se non l’ha ucciso tu, ma è in casa tua) può trasformare in un attimo un ragazzo sbarellato in un freddo mostro calcolatore capace di cose inaudite che no, non fanno nemmeno le tribù africane, come in molti urlano in questi giorni..le fanno gli psicopatici o gli psicotici.
Quando è stato arrestato, Innocent era confuso e pensava solo a difendersi: l’ho seguita, ma non l’ho uccisa. Non ha spiegato perchè ha depostato i pezzi della ragazza in due trolley. Questo sì l’ha fatto lui.
Il codice penale lo chiama vilipendio. Noi lo chiamiamo orrore.
Domani a Macerata la comunità nigeriana sarà in un sit in di protesta contro la barbarie compiuta da un loro compaesano. Tra di loro ci saranno persone per bene, integrate, buone, ed altre no, che spacciano droga leggera e pesante senza distinzioni ad altre Pamela e hanno solo paura dell’ondata razzista che l’Italia gli ha già vomitato addosso.
Pamela non era di qui, era romana e aveva sogni troppo distanti dal suo malessere interiore. Non cercava l’amore, che già aveva, cercava la pace che infine sa darlo, l’amore e sa scegliere a chi. Peccato che l’abbia trovata così, la pace, in una Italia stregata che i suoi figli finge di curarli e poi li dà in pasto agli orchi.
Colpevoli tutti.

Io, tossico, vi racconto cosa succede al boschetto di Rogoredo

 

Biondo, alto, 26 anni. Roberto è un bel ragazzo pavese rovinato dai due anni trascorsi in strada e dalla droga. I suoi genitori vivono a Londra e fanno i camerieri. Non ti cercano? “No”. Non vuoi rapporti con loro? “No”. Ha una fidanzata 19enne di Pavia che ogni tanto incontra e gli ripete: mi riavrai solo quando entrerai in comunità a disintossicarti. Chiedo di mostrarmi le sue braccia. Ha diverse cicatrici, ma nessun segno di buco recente. Mostra il collo con un segno rosso fresco: “Ora me li faccio qui”. Il tono di voce è bassissimo. La sua andatura è lenta, senza energie, l’equilibrio imperfetto. Si è appena alzato dal pavimento di piazza Diaz dove ha dormito insieme a tanti altri clochard. Non ci vuoi andare in comunità? “Forse ci andrò. O forse mi faccio una overdose e la chiudo qui”. Lo mando al diavolo: e fatti l’overdose, così prendi una decisione secca. Cambia tono: “E’ che una spinta vitale ancora ce l’ho”. Stai meglio dopo la dose? “Molto meglio”. Conosci tutte le conseguenze fisiche dell’eroina e della cocaina? Non è solo la morte… “No non le conosco, sono giovane”.
Un habituè di piazza Duomo all’alba lo saluta con enfasi e lui lo manda a quel paese. “E chi lo conosce, cosa vuole da me? Che mi stiano tutti alla larga”. Il ragazzo gentile e sottomesso di poco prima è sparito. Mi racconta le sue giornate, tutte uguali, tutte scandite da due soli bisogni: procurarsi i soldi e andare a comprare la droga.
Come fai coi soldi? 120 euro al giorno non sono pochi.
“Chiedo l’elemosina in piazza e nel metrò. Entro nei vagoni scavalcando, non mi hanno mai fermato. Me la danno. Una volta un signore mi ha dato 50 euro, altre me ne hanno date dieci. Certo che la gente fa l’elemosina. Se non raccolgo che faccio? Non mi drogo, sopporto i sintomi dell’astinenza perché rubare no, non rubo”.
Hai i documenti?
“No, li ho persi e dovrei rifarli”.
Non ti fermano mai?
“Qualche volta, ma sono regolare”.
Hai studiato?
“Sì, tre anni di superiori, un istituto tecnico, poi ho lasciato”.
“Quando ho abbastanza soldi prendo il metrò e vado a Rogoredo, ogni giorno, ci vado anche sette volte al giorno. Al boschetto, quello vicino alla stazione. Una dose di eroina costa venti euro, una di coca quaranta. Io mi faccio di ero e di coca, almeno tre volte al giorno. La droga la vendono gli stranieri, marocchini e albanesi. Gente schifosa e piena di soldi, hanno certe macchine lì fuori! Ho visto ragazze fare pompini per una dose, costrette a farlo perché non hanno i soldi. La polizia certo che lo sa. La incontro lì vicino e a volte mi ferma. Son gentili. Guarda questo piede, proprio ieri mi hanno chiesto come andava che si era infiammata l’unghia dell’alluce”.
Si tocca lo stomaco, cambia espressione. Sta male.
“Mi viene da vomitare, sono in astinenza da ieri sera, devo andare a Rogoredo”. Lo vedo scendere le scale del metrò.
Faccio una verifica in piazza Duomo: sono molti a confermare che i clochard, soprattutto italiani soli o in coppia o con i cani, raccolgono molti soldi, più di cento euro al giorno. Li usano per drogarsi o per bere o tutte e due.
La cronaca: più di un anno fa il boschetto della droga di Rogoredo è stato “assaltato” in pompa magna da esercito e forze dell’ordine con tv al seguito per due volte. Io stessa sono andata (ben dopo questi “assalti” ) e ho visto gli spacciatori entrare e lo stesso identico degrado di prima, stessa foresta, stessa zozzeria di fianco alla tangenziale. Due giorni fa il Partito democratico a Palazzo Marino ha fatto una serie di proposte “sociali” per l’area, senza mai parlare di intervento definitivo, primo fra tutti radere totalmente al suolo tutta la boscaglia, pretendere l’arresto di tutti gli spacciatori (che non sono drogati) e accusarli anche di violenza sessuale sulle ragazze. Poliziotti che si fingono drogati per entrare “nel giro” non sono una novità. Telecamere e fermi continui nei pressi del fortino nemmeno. Molti dormono lì accanto, e sono tutti conosciuti. L’obiettivo non è necessariamente arrestare, ma obbligarli a sloggiare.
Il Pd di Sala chiama in soccorso (o correità…) il quartiere e anche il comune di San Donato, verso il quale lo spaccio si estende. E fa proposte di prevenzione sociale per i drogati. L’area della stazione è enorme e abbandonata da vent’anni. L’eroina, si sa da tempo in tutti gli ambienti pubblici, è tornata come negli anni ’80 e a prezzi decisamente inferiori. Il fenomeno cresce, la voce si sparge sempre di più tra i drogati.
Non è che non si può fare niente, è che nessuno vuole fare niente.
Consiglio di fare un giro in macchina, per chi non ha idea di cosa sia quel luogo (io l’ho fatto a piedi).
Consiglio di fare girare la voce sul perché non vanno mai dati soldi ai questuanti di strada, anche se ci fanno pena.

Rogoredo, gli spacciatori ringraziano

Il tassista davanti alla stazione di Rogoredo, infreddolito e in attesa vana di clienti il 31 dicembre, si lascia andare e racconta. Dopo il servizio della Rai su tutte le reti, il boschetto dello spaccio accanto ai binari della stazione, è meta ambita. Ragazzi che chiedono dov’è, altri che si fanno portare in taxi appositamente dalla stazione Centrale. Aveva fatto scalpore, alle porte di Milano, la decisione della Questura di intervenire con il falcetto e le motoseghe per abbattere alberi e impedire in modo piuttosto deciso, il nascondiglio della droga. Eroina. Lì si compra e ci si buca. Problema risolto?  Macchè. Il tassista indica un’auto parcheggiata, incidentata e bruciata. Al posto di quella, ricorda, prima ce n’era un’altra con spacciatori che dormivano dentro. Cento metri dall’entrata della stazione dove parte Italo per Roma.

Attendo che la nebbia si alzi e mi incammino verso il ponte sopra la ferrovia costeggiando l’unica strada asfaltata. Salgo i gradini della scala di pietra attenta a dove metto i piedi. Mai vista tanta sporcizia in pochi metri. C’è di tutto: vestiti rotti, cartacce, spazzatura, plastica. Non vedo siringhe. La vegetazione è fitta e sotto di me c’è il boschetto ben nascosto alla vista. Salgo fino al ponte: non c’è anima viva. Ridiscendo e provo a proseguire sulla strada. Vedo uno con il turbante, lo seguo. Si volta, mi fermo. Fingo di guardare i binari. Riprende a camminare e io anche. Si volta di nuovo a guardarmi e di colpo si infila a destra. Nel boschetto. Devo rinunciare. La mia collega mi aveva detto sicura: ci sarà polizia. Dove?

Sono stata in area stazione dalle 8 alle 11, ho parlato con i ferrovieri,  ho bevuto un caffè nel bar duecento metri prima del piazzale, ho visto l’arrivo delle auto che parcheggiavano e scendevano persone con trolley, gente per bene che andava a passare il capodanno viaggiando con Italo. I tassisti dicono che ogni tanto la polizia c’è, gira davanti alla stazione e dentro. Io non l’ho vista.  Incontro una signora romena che vive lì vicino e nn so perché deve sfogarsi contro Pisapia e parlare benissimo della Moratti. Parla solo di politica e fa la donna delle pulizie in piazza Cavour, alla palestra. Dice che il quartiere è degradato per colpa di Pisapia, mentre prima era bellissimo con la Moratti. Non so cosa glielo faccia sostenere con così tanta convinzione: l’area stazione è squallida e, prima ancora, venendo da via Toffetti, non vedi altro che muri  bianchi di aziende e camion che arrivano fino all’Ortomercato. La tangenziale si interseca e le auto sopra il cavalcavia che conduce a piazza Corvetto non fanno più caso a quello che vedono dai finestrini. Ma del boschetto della droga che è vecchio di anni, fino all’operazione di polizia in grande stile con telecamere, fotografi e giornalisti, sapevano solo i residenti, i tassisti e i ferrovieri. Bianchi e neri si dividono uno spazio considerato una piazza milanese succulenta che frutta migliaia di euro. rogoredoeolympia-6.jpg